L’esercitazione congiunta delle forze armate cinesi in quella striscia di mare che la separa da Taiwan ha risvegliato nell’amministrazione Biden la possibilità recondita che si verifichi il peggiore tra gli scenari ipotizzabili e messi da tempo nel novero dei rischi dal Pentagono: la possibilità che la Cina attacchi Taiwan aprendo il terzo fronte di guerra in cui Washington si troverebbe impegnata. Un timore che da tempo aleggia nei corridoi di quello che fu il “Dipartimento delle guerra” e mai del tutto accantonato.

Del resto ogni scenario persino quello più improbabile non può essere accantonato e sottovalutato. Una lezione che gli Stati Uniti hanno appreso sulla loro pelle sempre nel Pacifico, quando l’impero Giapponese scatenò l’attacco a sorpresa sulle Hawaii e distrusse la flotta americana a Pearl Harbour. Il timore di subire un colpo sul fianco non è da escludersi e l’attendismo cinese non aiuta a decifrare le intenzioni di un popolo enigmatico e con una concezione del tempo ben lontana da quella occidentale. La Cina vuole Taiwan, e quello che Xi Jinping ha definito il “secolo cinese” non può che coronare la riunificazione cinese, tramettendo l’immagine di Xi come il nuovo “Mao”, il nuovo timoniere che restituirà alla Cina l’ultima roccaforte che neppure il “grande” di “timoniere” è riuscito a riconquistare.

Xi Jinping dalla sua ha fino ad ora inserito tutti i tasselli per completare un mosaico di cui lui solo conosce il disegno. Di sicuro Xi avrà fatto suo quel monito di Mao Zedong quando sul letto di morte come annota Pietro Nenni nel suo diario disse “raccomandate ai giovani cinesi di ricordarsi di Yu Kung”. Yu Kung è il protagonista di una vecchia favola contadina che narra di un contadino, Yu Kung, che con una zappa doveva spianare una montagna. A tutti coloro che lo schernivano per la follia della cosa rispondeva: “Io morirò ma rimarranno i miei figli. Moriranno i miei figli, ma resteranno i miei nipoti e cosi le generazioni si susseguiranno all’infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte. A ogni colpo di zappa esse diventeranno più basse”. Se Nenni, simbolo del socialismo italiano, commentava sostenendo che “ogni rivoluzione ha da essere permanente”, probabilmente anche Xi pensa che ogni pressione lo deve essere in attesa che si giunga al momento propizio per attaccare. Approcciò alla politica estera che non può che rendere complesse e poco prevedibili le mosse di Pechino.

Altro timore che non è che Pechino attacchi in questa fase di incertezza che gli Stati Uniti vivono in attesa che il responso elettorale determini non solo il prossimo “Comandante in Capo” ma anche la tipologia di approccio che la prossima amministrazione avrà nei vari scenari. L’Amministrazione Biden che in politica estera in quattro anni non ha certo dato il meglio di se si trova a concludere la sua avventura con gli Stati Uniti che partiti da una volontà di graduale disimpegno hanno ad oggi tre fronti aperti, due alleati in guerra (Ucraina e Israele) e un terzo che potrebbe esserlo a breve (Taiwan). Uno scenario che se non è apocalittico, non è neanche eccessivamente positivo. L’unico alleato di per sé autonomo è Israele ed anche l’unico che ad oggi ha ottenuto importanti successi militari e di intelligence e che talvolta Washington mira anche a frenare, temendo l’escalation, benché consapevole come tutti gli attori in campo che i vecchi equilibri sono saltati e che il rischio che si arrivi ad uno scontro frontale con l’Iran non è da escludere anche in questo caso al di là della propaganda.

Se i nemici aspettavo di capire cosa gli americani decideranno, Israele sembra voler ottenere più obiettivi possibili prima del 5 novembre. Benché il nuovo Presidente degli Stati Uniti giurerà solo il 20 Gennaio. Ma in fin dei conti uno dei candidati è già dentro la Casa Bianca, ed è quello meno gradito a Netanyahu. Sul fronte Ucraino Washington si trova a dover sostenere un conflitto che ogni giorno di più sembra un pantano senza via d’uscita, e dove gli obiettivi strategici rischiano di lasciare il campo agli odi antropologici. Non sarà questa l’Amministrazione che chiuderà la guerra in Ucraina e probabilmente nessuno dei conflitti in corso. Se l’obiettivo di Biden era quello di attuare un graduale disimpegno degli Stati Uniti da tutti gli scenari in cui si trovavano impegnati, eccetto Taiwan, arrivati ai suoi ultimi mesi di mandato possiamo affermare che è la strategia è fallita. Fallita perché è il ruolo degli Stati Uniti e l’ordine mondiale che lo rende irrealizzabile. L’unica speranza di Washington è che Pechino non ritenga i tempi maturi e non voglia attaccare né prima delle elezioni, né subito dopo, dando così il peggiore dei benvenuti al nuovo Presidente.

Intanto Biden incontrerà gli alleati europei per trovare una quadra nel quarto anno di un conflitto che non vede pace, mentre Mosca boccia il piano di Zelensky avvertendo che “L’unico piano di pace possibile è che il regime di Kiev comprenda che la sua politica è senza prospettiva e che è necessario svegliarsi”. Secondo in portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, il piano di Kiev “probabilmente è lo stesso degli americani” basato sul “combattere la Russia fino all’ultimo ucraino”, con una stilettata a Washington di combattere la Russia con il sangue Ucraino. Biden vedrà gli alleati e parlerà di Ucraina, ma probabilmente si chiederà come forse tutti al pentagono oggi si stanno domandando che è cosa pensa Xi guardando Taiwan oggi in visita a Dongshan all’indomani delle manovre? Provincia cinese del Fujian, che si trova sullo Stretto di Taiwan. Sarà un caso? O forse è solo l’ennesimo enigma cinese che attanaglia l’America e dunque l’Occidente.

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Nato nel 1994, esattamente il 7 ottobre giorno della Battaglia di Lepanto, Calabrese. Allievo non frequentante - per ragioni anagrafiche - di Ansaldo e Longanesi, amo la politica e mi piace raccontarla. Conservatore per vocazione. Direttore di Nazione Futura dal settembre 2022. Fumatore per virtù - non per vizio - di sigari, ho solo un mito John Wayne.