Le fonti parlano di più di 50 morti e oltre 140 feriti. È il bilancio delle violenze esplose nella periferia orientale di Tripoli dopo che il colonnello Mahmoud Hamza, comandante della “Brigata 444”, era stato arrestato dai rivali delle forze “Rada”. Un bagno di sangue che getta un’ombra sul presente e sul futuro della Libia, ma che rappresenta anche l’ennesimo campanello d’allarme su un Paese in cui regna l’anarchia militare. La liberazione di Hamza è servita a fermare i combattenti tra milizie avversarie. Ma il bilancio delle violenze non può far volgere gli occhi da un’altra parte. E non è un caso che la Missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil), nell’appello per far cessare gli scontri, abbia subito posto l’accento sul “possibile impatto di questi sviluppi sugli sforzi in corso per coltivare un ambiente di sicurezza che favorisca l’avanzamento del processo politico, compresi i preparativi per le elezioni nazionali”. È chiaro, infatti, che il caos della periferia di Tripoli, capitale del Paese e sede dell’unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale, pone una serie di interrogativi sulle realtà della Libia.

E interroga soprattutto sul fatto che l’agognata stabilizzazione del Paese dopo la guerra e la caduta di Muhammar Gheddafi appaia sempre più come un lontano miraggio, o forse, al momento, uno scenario ai limiti dell’utopia. Coinvolgendo inevitabilmente anche le potenze interessate alla Libia e ai programmi spesso molto vaghi per porre fine al caos che la dilania. Prima delle violenze di Tripoli, Adnkronos aveva riportato la notizia del quotidiano emiratino Al-Ittihad riguardo un possibile incontro a Parigi con Onu, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Germania e Italia sul percorso per le elezioni. Il summit, se confermato, si aggiungerebbe a quello di luglio, sempre a Parigi, tra i vertici militari del Governo di unità nazionale e dell’Esercito nazionale libico, quello che fa capo al generale Khalifa Haftar. L’incontro serviva per avviare un programma per la fusione dei rispettivi eserciti, con la nascita di alcune unità congiunte. Gli scontri di questa settimana rischiano tuttavia di rendere superfluo il dibattito sul processo per giungere alle elezioni generali, dal momento che le vittime nella capitale suggeriscono di fatto l’assenza di controllo del territorio da parte delle autorità nazionali, tanto più se ciò è avvenuto nella periferia di Tripoli.

Lo stop deve preoccupare tanto la Francia quanto (se non soprattutto) l’Italia, visto che il caos libico ribadisce ancora una volta l’esistenza di un focolaio di instabilità a poche miglia dalle coste italiane. La questione non riguarda solo il tema dei flussi migratori, che di certo rappresenta uno dei punti-chiave dell’agenda di governo, ma anche l’intera architettura geopolitica del Nord Africa. In questo momento, infatti, l’Italia deve fare i conti con molteplici dossier che si uniscono consegnando l’immagine di un continente africano sempre più in balia del caos. Le violenze di Tripoli riaccendono i riflettori sulla Libia, da sempre pilastro dell’agenda strategica italiana nel Mediterraneo e in Africa. Alla Libia va aggiunta poi la Tunisia, altro Paese che, almeno al momento, assiste a una crisi economica e sociale ben lontana dalla risoluzione. Solo nella notte del 15, a Lampedusa sono arrivati sette barchini pieni di migranti provenienti da Sfax, diventata l’hub della tratta di esseri umani. Più a sud, nel Sahel, la situazione appare a dir poco critica. In Niger, dove ci sono ancora più di duecento membri delle forze armate italiane, la giunta golpista non arretra e ancora si teme un intervento armato di Ecowas, la Comunità dell’Africa occidentale. Paesi come il Mali e la Repubblica centrafricana sono ormai in balia dei mercenari russi della Wagner, mentre il Sudan assiste a una guerra civile che da aprile, secondo l’Onu, ha mietuto quattromila vittime. La Libia rischia ormai di essere solo uno dei tanti tasselli di questo regno del caos.