Il fiume umano che si riversa nelle strade della Repubblica Islamica ci attrae e ci trascina verso l’idea di un possibile Iran libero. Emana una forza tale per cui oggi nessuno può dirsi indifferente rispetto a questo popolo, oppresso da oltre quarant’anni da un regime teocratico e misogino. Un popolo che sembra ormai un flusso d’acqua in cerca del punto di congiunzione con il mare cristallino della libertà. Sappiamo che i regimi si fondano sulla violenza e che usano come un manganello le punizioni a loro disposizione per sedare il dissenso, finanche il malcontento. Se poi il loro ordinamento prevede la pena di morte, picchiano anche con questa.

In Iran però si va oltre, perché si arriva a picchiare con la pena di morte, chi morto lo è già. È accaduto a Zahedan, capitale della provincia del Sistan-Baluchistan, dove risiede l’etnia baluci di religione sunnita, duramente perseguitata dagli sciiti al potere del governo centrale. Lo scorso 30 settembre le forze paramilitari del regime teocratico hanno aperto il fuoco contro fedeli e manifestanti baluci in una moschea a Zahedan, trucidando 96 persone e ferendone 350. A questo orrore se ne è aggiunto un altro quando lo scorso 6 novembre Nematollah Barahouyi è stato appeso al cappio nel carcere di Zahedan, insieme ad Amanollah Alizehi. I due uomini erano entrambi di etnia baluci ed erano stati condannati a morte da una Corte Rivoluzionaria per reati legati alla droga. Solo che, secondo la testata Hal Vash, Nematollah è stato impiccato morto. Le guardie lo avevo ucciso a botte perché poneva resistenza mentre lo trascinavano verso il patibolo. Lo hanno appeso privo di vita per attribuire al cappio la responsabilità del decesso e così evitare di incorrere in problemi legali. Sono due esecuzioni di cui non vi è traccia nei mezzi di informazione ufficiali, come peraltro accade per molte delle esecuzioni compiute in Iran arrivate a ben 534 quest’anno secondo il meticoloso monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino

In effetti, rispetto a certi accadimenti è meglio tacere o nascondere la verità. I regimi vivono di silenzi come di menzogne. Oltre che di repressione e di botte. Devono far stare male per sopravvivere. Mors tua vita mea, o con me o contro di me. Questo è il pensiero diabolico che attraversa le menti al vertice di qualsivoglia regime. Un pensiero così involuto che nel vortice del male che crea cola a picco verso gli abissi più oscuri. Si è infatti arrivati lo scorso 7 novembre al punto che la grande maggioranza dei membri del parlamento iraniano ha chiesto alla magistratura che venga applicata la pena di morte ai manifestanti arrestati durante le proteste. È avvenuto con un appello, firmato da 227 deputati su 290 in totale, che chiede la pena capitale per i dimostranti definiti come “nemici di Dio” in modo che “serva da lezione”. Secondo Iran Human Rights sono 15.000 i manifestanti arrestati da quando, due mesi fa, è cominciata la protesta innescata dalla morte di Mahsa Amini. A distanza di pochi giorni, il 14 novembre, è arrivata la prima condanna a morte di uno dei manifestanti di cui non è noto il nome. A pronunciare il verdetto di morte è stata una Corte Rivoluzionaria.

Almeno altre cinque condanne a morte di manifestanti sono seguite a questa, mentre almeno altri 20 stanno già affrontando processi punibili con la morte secondo quanto riportano notizie ufficiali. Ma se migliaia e migliaia di manifestanti arrestati restano in attesa del processo, della condanna e dell’esecuzione, intanto si va avanti con le esecuzioni sommarie per mano delle forze dell’ordine. Sono almeno 342 quelli uccisi (550 secondo il Consiglio della resistenza iraniana), compresi 43 bambini e 26 donne. È notizia di questi giorni che la Risoluzione per la moratoria universale delle esecuzioni capitali, di nuovo al voto della Assemblea Generale dell’ONU, è stata approvata in un primo passaggio, quello del Terzo Comitato, ed è in attesa di passare al vaglio della plenaria. I voti a favore sono stati 126 (erano stati 120 nel 2020), 37 i contrari e 24 gli astenuti. In plenaria andrà ancora meglio a riprova che la moratoria, dono di Nessuno tocchi Caino e oggi patrimonio curato meritevolmente da molti, continua a orientare l’umanità verso una giustizia capace di deporre la spada.

Tra i voti a favore della risoluzione anche quelli di Paesi islamici a riprova del fatto che il problema non è il Corano, perché non tutti i Paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria legge fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico. Che l’Iran rientri tra questi regimi è noto da tempo. Che la politica di accondiscendenza dei Paesi cosiddetti democratici abbia contribuito a farlo durare nel tempo sicuramente meno. Per cambiare dunque le cose in Iran occorre innanzitutto cambiare noi stessi: passare da una politica dell’accondiscendenza a quella di un dialogo fondato sul rispetto dei diritti umani fondamentali.