Gli Usa lavorano all’evacuazione dell’ambasciata
Cosa succede a Kabul, i talebani alle porte della capitale afghana
I capoluoghi delle province afghane cadono come birilli di fronte all’avanzata dei talebani. Dopo la conquista di Kandahar e Herat, rispettivamente la seconda e la terza città più grandi dell’Afghanistan, ieri è stata la volta di Terenkot, capoluogo della provincia di Uruzgan, nella parte meridionale del paese.
Subito dopo si è arresa Qalat, 44 mila abitanti, capoluogo di Zabul. Qalat diventa così il 18esimo capoluogo di provincia, su un totale di 34, a cadere nelle mani degli insorti in una settimana. In entrambi i casi, le città si sono arrese senza combattere. La marcia trionfale degli estremisti islamici è favorita dal periodo estivo – da aprile fino a ottobre – che qui è la stagione dei combattimenti: appena la neve si scioglie, liberando le zone montuose interne e i passaggi verso il Pakistan, i collegamenti per il rifornimento di munizioni e il movimento di uomini possono riprendere.
La scelta americana della data del ritiro ha, di fatto, favorito una rapida avanzata. Inoltre, dopo la cattura delle città di Ghazni e di Pul-i Alam, capoluogo della provincia di Lowgar, a sud di Kabul, e di aree della provincia di Baghlan, a nord, i talebani hanno ora il controllo di località chiave per accerchiare la capitale. Le forze jihadiste sono ormai arrivate a 60 chilometri da Kabul, dalla quale fuggono migliaia di civili in condizioni disperate. L’ipotesi di una caduta di Kabul entro un mese è smentita però dal generale Giorgio Battisti, il primo comandante del contingente italiano in Afghanistan. In una intervista all’agenzia Agi, Battisti spiega che la capitale afgana è una città di 4 milioni e mezzo di persone, difesa da decine di migliaia tra militari e forze di polizia che presidiano tre anelli di sicurezza: «Non è prevedibile che possa cadere nel senso classico di una città assediata. I talebani non dispongono di tutte queste forze per assediare questa grande metropoli e combattere casa per casa, quartiere per quartiere».
Intanto, la ciliegina sulla torta di questa settimana trionfale è, per i jihadisti, la cattura di Mohammad Ismail Khan, soprannominato il “Leone di Herat”, uno dei comandanti di milizia più noti del paese, prima protagonista della lotta contro i sovietici negli anni 80, poi membro dell’Alleanza del Nord che nel 2001, con il sostegno degli Stati Uniti, rovesciò proprio i talebani. Il consigliere provinciale di Herat, Ghulam Habib Hashimi, ha dichiarato all’agenzia Reuters che «i talebani hanno accettato di non minacciare o fare del male ai funzionari del governo che si sono arresi». Atteggiamento confermato da un comunicato ufficiale di ieri, nel quale i talebani promettono una “amnistia generale” per chi ha collaborato con il governo di Kabul e le “forze occupanti” e assicurano altresì che i diplomatici stranieri “non verranno toccati”, così come le proprietà e le imprese private.
Alla base di questo atteggiamento potrebbe esserci un tentativo di negoziato da parte degli Stati Uniti che hanno promesso aiuti finanziari in cambio dell’incolumità dei funzionari locali e dei cittadini occidentali presenti. Secondo il New York Times, la trattativa, condotta dall’inviato Usa per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad, mira a evitare una completa evacuazione dalla sede diplomatica. Il dipartimento di Stato ha annunciato una riduzione del personale dell’ambasciata, a fronte dell’avanzata dei talebani nel Paese, ma ha garantito che la sede diplomatica rimarrà aperta e continuerà a offrire i suoi servizi. Se attaccassero Kabul o prendessero il governo dell’Afghanistan con la forza i talebani perderebbero qualsiasi legittimità internazionale. Lo ha conferma ieri Josep Borrell, capo della diplomazia Ue: «Se il potere viene preso con la forza e viene ristabilito un Emirato islamico, i talebani dovranno fare i conti con il non riconoscimento, l’isolamento e l’assenza di sostegno internazionale».
Tuttavia, Washington lavora per una rapida evacuazione dei funzionari dell’ambasciata. Come ha annunciato il portavoce del Pentagono John Kirby, tremila soldati statunitensi sono in arrivo a Kabul per riportare a casa i cittadini Usa e per garantire visti speciali di immigrazione per gli afgani che hanno assistito gli americani durante la loro permanenza in Afghanistan. Anche la Nato ha tenuto ieri un vertice, presieduto dal segretario generale Jens Stoltenberg, per discutere i piani per l’evacuazione dei cittadini stranieri e del personale diplomatico dei paesi membri dall’Afghanistan. Si muove anche l’Italia. Dopo la telefonata di giovedì sera tra il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e il premier Mario Draghi, ieri, con con una nota, la Farnesina ha tenuto a precisare lo stretto contatto con il Dipartimento di Stato Usa, garantito rispettivamente dal segretario generale italiano Ettore Sequi e dal vice segretario di Stato americano Wendy Sherman.
Nel pomeriggio di ieri, poi, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha cominciato a discutere una bozza di dichiarazione con la minaccia di sanzioni per abusi e atti che mettono a rischio la pace e la stabilità dell’Afghanistan. Nella dichiarazione, che per passare deve essere concordata all’unanimità dai Quindici, si ribadisce che “l’Emirato islamico dell’Afghanistan non è riconosciuto dalle Nazioni Unite”, e che il Consiglio “non sostiene e non sosterrà l’istituzione di alcun governo imposto attraverso la forza militare né il ripristino dell’Emirato islamico”. La Russia guarda con favore all’iniziativa dell’Onu, ma chiede anche, tramite il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, l’intervento di mediatori internazionali come l’India.
Il conto dei danni per le popolazioni civili, intanto, è enorme. Dall’inizio di quest’anno, decine di migliaia di afgani sono fuggiti dalle zone rurali e dalle città verso la provincia di Kabul. Gli sfollati sono in totale 400mila. L’Unhcr, l’agenzia Onu per i Rifugiati, sollecita il sostegno urgente della comunità internazionale. Come sempre, a pagare il prezzo più alto del conflitto sono donne e bambini: per l’Unhcr rappresentano circa l’80% dei quasi 250 mila afgani costretti alla fuga dalla fine di maggio. E Save the Children conta 72 mila bambini in fuga verso Kabul.
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