Il trauma dell’assalto a Capitol Hill è ancora fresco. Tuttavia, il Congresso degli Stati Uniti, poche ore dopo i disordini ha completato le operazioni rituali per la conferma del presidente eletto. L’inaugurazione della presidenza di Joe Biden si svolgerà proprio a Washington il 20 gennaio prossimo. Ma che cosa succederà nel frattempo? Che cosa ci si può ancora aspettare dal presidente uscente Donald Trump? Per comprendere meglio il comportamento delle istituzioni americane in questa prova storica, il Riformista ha chiesto il parere di Francesco Clementi, docente di diritto costituzionale comparato nell’Università di Perugia, co-autore con Gianluca Passarelli del volume Eleggere il Presidente. Gli Stati Uniti da Roosevelt a oggi, edito da Marsilio.

Come possiamo inquadrare l’assalto al Congresso sul piano costituzionale? E la politica come tratterà le ipotesi di reato? Davvero è possibile la rimozione di Donald Trump nei giorni finali della sua amministrazione?
Abbiamo assistito a un fatto gravissimo: si è svolto nel Parlamento della democrazia per eccellenza, ed è avvenuto per un attacco interno. Hanno profanato il tempio sacro delle istituzioni democratiche e lo hanno bagnato con il sangue di cinque morti: un’apocalisse che neanche nelle serie di Netflix. Vorrei dire – senza considerare naturalmente l’immensa asimmetria nella perdita di vite umane – che ha un impatto più grave dell’11 settembre. Per cui, sarebbe doveroso tanto l’impeachment quanto l’uso del 25° emendamento, che permette la rimozione del presidente. Eppure, ragionando a mente fredda, sarebbe un boomerang politico.
Perché?
Joe Biden ha vinto perché ha promesso di riconciliare il paese. In questo modo trasformerebbe Trump – almeno agli occhi del suo elettorato che è vasto e molto fidelizzato – in un martire. E Biden sa bene che per riassorbire la rabbia del “popolo” di Trump serve la politica più che un tribunale. Per cui, è legittimo che i leader dem del Congresso chiedano la rimozione del presidente, ma Biden tenterà di recuperare il consenso di quel popolo – quello di Trump, cioè la metà del Paese che non lo ha votato, ora auspicabilmente in crisi di identità – con la politica. Non da ultimo per vincere le prossime elezioni di midterm: fatto non scontato. Non dimentichiamo, infatti, che i dati ci dicono che Biden ha vinto le elezioni ma i democratici non sono maggioranza nel Paese. Biden dunque dovrà ricucire il Paese con la politica piuttosto che brandire l’arma della giustizia nei tribunali, seguendo l’esempio di Abraham Lincoln dopo la guerra civile o, se si vuole, del nostro Togliatti dopo la guerra mondiale.
Insomma, Biden non adotterà iniziative legali. E Mike Pence?
Non credo. Per lui sarebbe un gesto politicamente dannoso: ha già fatto quel che doveva in questi giorni per marcare la differenza da Trump. E poi la sezione 4 del 25° emendamento sull’inabilità sopravvenuta del presidente è molto ambigua perché si chiede al vicepresidente e al gabinetto di sfiduciare il proprio capo: uno strumento non tipico di quella forma di governo. Assomiglia al nostro ordine del giorno Grandi del 1943 o, in altra forma, alla sfiducia al premier tramite il cambio del leader del gruppo parlamentare nel Regno Unito. Non gli appartiene culturalmente né li avvantaggia politicamente.
A questo punto, allora, quale scenario si apre dopo il 20 gennaio, quando Biden sarà finalmente nel pieno esercizio delle sue funzioni?
Avremo un presidente uscente senza immunità penali ma con una montagna di problemi legali, a partire da quelli fiscali innanzitutto. Questo potrebbe lasciarlo minaccioso con il rischio di alimentare la rabbia dei suoi, dividendo il Paese. Biden allora deve rispondere a questa domanda: scaricargli contro l’iniziativa dei giudici oppure, scegliere il “male minore” per cercare di far rientrare il trumpismo nel pentolone da cui era uscito? Questo è il dilemma. L’uso della graticola fiscale nei confronti del presidente uscente potrebbe dunque rappresentare un elemento di pressione per evitare le derive antisistema.
Ecco perché Trump sta cercando di darsi la grazia da solo…
Certo. Ma l’uso del pardoning power in tal caso sarebbe illegittimo. Il presidente non può darsi la grazia da sé. Non per caso diviene una Repubblica per non stare sotto il giogo di una monarchia assoluta. Semmai Biden dovrà valutare – che si dimetta anticipatamente o dopo il 20 gennaio – l’adozione della grazia nei confronti dell’ex presidente, come nel caso di Richard Nixon, sempre che Trump la smetta di aizzare le folle. Un gesto di clemenza, a tempo debito, per riconciliare il paese. Tuttavia avrebbe un costo politico molto alto, che Biden però potrebbe pagare, con spirito autenticamente repubblicano, non essendo destinato per ragioni di età a ricandidarsi.
Intanto però il danno di immagine per la democrazia americana c’è stato. Di più: ci sono stati dei morti che hanno bagnato di sangue i gradini di Capitol Hill. Come è potuto accadere? Quali sono le responsabilità della polizia?
Se penso anche semplicemente allo schieramento di forze in campo in ragione della manifestazione dei Black Lives Matter, non c’è dubbio che c’è stata molta sottovalutazione della situazione, tanto nella gestione della piazza quanto nella tutela interna del Congresso. Bisogna capire, anche con un’inchiesta del Congresso, se sia stato il tutto intenzionale e deliberato. Di certo, dopo che sono stati lasciati entrare, la scelta di non intervenire contro i rivoltosi “con le cattive” mi è parsa una scelta apprezzabile, onde evitare una strage, che avrebbe portato davvero ad una seconda guerra civile. Tuttavia bisognerà indagare. E bene.
Dopo i fatti di Washington possiamo dire che il sistema americano è in crisi? O sarà capace di reagire?
La democrazia americana è forte e salda: prova ne è che, tre ore dopo gli scontri, in quello stesso luogo profanato, hanno certificato Biden come nuovo Presidente e che, fra pochi giorni, sul medesimo prato calpestato da quei delinquenti, sarà celebrata la massima festa della democrazia: il giuramento del nuovo ticket presidenziale.

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