La bambina di sei sette anni con lunga treccia che si arrampica sul muretto agile e veloce come una leprotta e si tuffa tra le braccia di uno dei pochi soldati occidentali ancora rimasti a Kabul. E poi le donne che gettano i loro bambini piccolissimi, e soprattutto le bambine, al di là del filo spinato. Per sottrarre all’orrore di una vita futura, in regime di Talebani, le ragazzine e le donne tutte, ma anche i bambini che spesso erano diventati oggetti di trastullo sessuale per uomini, annientati nella personalità e destinati a un futuro di prostituzione maschile. Chi sta cercando di scappare dall’Afghanistan vuole sottrarsi a qualcosa che ha già vissuto e non ha dimenticato negli ultimi vent’anni di speranza.

Le donne e le ragazze, prima di tutto. Ci si può fidare di chi, come il portavoce dei Talebani Zabihullah Majahid, ha esibito “garanzie” che puzzavano di imbroglio già mentre ogni parola usciva dalla sua bocca? Non ci saranno discriminazioni, ha assicurato, le donne potranno uscire di casa e anche andare al lavoro. Poi ha messo lì un “MA” grande come un grattacielo: ma nel rispetto della sharia, ha detto. Sappiamo tutti che la sharia è la legge islamica che domina qualunque altra norma, più forte delle costituzioni, e che orienta le decisioni di governi e parlamenti. È il documento fondamentale con cui, usandolo come un elastico, si danno e si tolgono i diritti. Quelli delle donne, soprattutto.

C’è un punto fondamentale, che pare invincibile, quello che, considerando impuro il corpo della donna (in quanto induce l’uomo a “peccare”), lo rende prigioniero non solo del burka e del niqab, ma soprattutto degli uomini di casa. È tra quelle mura che la donna deve stare, salvo che non venga accompagnata da uno dei suoi “proprietari” e paludata dalla testa ai piedi. Di lavorare, studiare e guidare l’auto neanche parlarne, ai tempi dei Talebani. E guai a mostrare il corpo malato a un medico di sesso maschile. I più radicali erano arrivati a imporre alle “proprie” donne di famiglia di coricarsi vestite: fosse mai capitato un terremoto o un incendio e qualcuno avesse dovuto constatare la morte di un corpo femminile seminudo…

I Talebani sono arrivati a Kabul con un anticipo che ha lasciato smarriti un po’ tutti. E il primo giorno abbiamo assistito sgomenti, soprattutto noi donne, a quel vero assalto che torme di afghani, tutti uomini, stavano dando agli aerei diretti al mondo occidentale. Uomini così disperati da mettere in discussione la propria vita, e infatti alcuni l’hanno persa. Ma dove erano le donne, ci siamo domandate, in quale trappola da topi erano state lasciate? E il sospetto era forte, che quelle parole morbide che in realtà non avevano rassicurato nessuno, del portavoce dei Talebani, fossero dirette solo al mondo esterno, mentre all’interno del Paese già giravano le liste con i nominativi delle donne nubili dai 12 ai 45 anni. Donne da far proprie, da possedere con i matrimoni forzati o gli stupri. In nome della sharia, magari.

Intanto alcune famiglie di cittadini e cittadine afghane sbarcavano anche in Italia, le immagini diffuse da ogni rete tv. Sono collaboratori della nostra ambasciata, dei consolati e di altri uffici che si sono radicati in Afghanistan nel corso di vent’anni. C’è un particolare che colpisce: quasi nessuna delle donne è vestita come le italiane, un gruppo di ginecologhe e altre professioniste. Non è un fatto formale, tant’è che molti commentatori, ma soprattutto commentatrici, si stanno chiedendo in questi giorni se davvero questi due decenni abbiano inciso nel profondo della parte più retrograda della cultura islamica.

Se lo è domandato, in modo anche autocritico, perché è vero che sappiamo ben poco di quel che è capitato alla maggior parte delle donne in tutto questo tempo, Natalia Aspesi su Repubblica: «Davvero sino a pochi giorni fa non erano velate? Davvero riempivano le università? Davvero sposavano chi volevano? Davvero erano libere?». Non sono domande da poco. Il sospetto è che siano ben poche quelle in grado di rispondere in modo affermativo ai quesiti. Le “privilegiate” della città, non quelle delle piccole comunità rurali. Per le rivoluzioni culturali forse vent’anni sono ancora pochi. Chissà se davvero si riuscirà a parlare anche di questo al G20 di santa Margherita Ligure del prossimo 26 agosto, anche se in realtà il tema è quello dell’empowerment lavorativo ed economico.

Naturalmente l’urgenza oggi è prima di tutto quella di tirar fuori queste donne dalla trappola per topi in cui sono state infilate, aiutandole a partire o difendendole là dove sono. «L’Europa deve agire. L’Italia deve reagire». Come hanno scritto 78 associazioni in un documento unitario.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.