La conferma degli arresti domiciliari per il Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, soprattutto alla luce della motivazione che la sorregge, merita una riflessione attenta e soprattutto non inquinata da pregiudizi politici. Toti governa la Regione Liguria per volontà democratica della maggioranza di quella comunità politica. È accusato di reati gravi, che nella ipotesi accusatoria sarebbero stati commessi proprio nell’esercizio di quella funzione. Il Presidente Toti nega recisamente l’addebito, rivendica la assoluta trasparenza e tracciabilità dei finanziamenti privati ricevuti, a fronte dei quali afferma di non avere mai adottato provvedimenti lesivi dell’interesse pubblico, e comunque indebitamente favorevoli verso i suoi finanziatori.

Solo un processo potrà stabilire la verità, che nessuno di noi conosce; ma la petizione di innocenza di Toti -come di qualunque cittadino indagato- è intanto assistita da un fondamentale principio costituzionale. Ecco perché la legge impone regole molto stringenti e severe (concretezza, attualità, indispensabilità) per la adozione di misure cautelari che privino della libertà un cittadino prima del giudizio di responsabilità. Ed occorre sapere che, proprio con riguardo a chi ricopre cariche pubbliche elettive, la legge stabilisce addirittura un divieto: non è consentito “interdire” l’esercizio degli “uffici elettivi ricoperti per diretta investitura popolare” (art. 289 comma 3 c.p.p.). Naturalmente, le misure interdittive sono misure cautelari diverse dagli arresti domiciliari invece inflitti al Presidente Toti, dunque nessuna violazione formale di quel divieto è in atto: ma credo sia giusto ed anzi doveroso chiedersi -ed eccoci al punto- se, proprio per la singolarissima motivazione adottata, la costrizione di Toti non si stia traducendo di fatto in una elusione di quel divieto normativo.

Le cronache ci informano, infatti, che il Presidente Toti deve rimanere agli arresti domiciliari -e dunque in una condizione che di fatto, cioè a dire “materialmente”, gli interdice l’esercizio della sua funzione elettiva- per il pericolo che egli possa reiterare reati della stessa specie (di nuovo raccolta di finanziamenti in cambio di favori indebiti) in vista delle elezioni del 2025 (come, fino a qualche giorno fa, era in vista delle elezioni europee). Inutile giraci intorno: se questa è la tesi, Toti non potrà di fatto tornare alle proprie ordinarie funzioni fino alla scadenza del proprio mandato. Così motivati, occorre allora chiedersi se quegli arresti domiciliari non siano, per fatti concludenti, una forma travestita di interdizione “dell’ufficio elettivo ricoperto per diretta investitura popolare”.

La domanda è legittima, ma soprattutto la questione è di grande rilievo costituzionale. Perché la ragione ispiratrice di quello specifico divieto segnala la portata democratica irrinunciabile che il legislatore riconosce alla funzione pubblica esercitata per mandato popolare, perfino quando possano sorgere indizi di reità in capo a chi la riveste e la esercita. È talmente rilevante per il nostro sistema processuale l’investitura popolare democratica di una carica pubblica, da determinare l’imposizione di un divieto (della misura interdittiva, ripeto) che deroga ad una regola valida invece per ogni altro cittadino che eserciti un pubblico ufficio o un servizio, con buona pace di ogni facile e grossolano populismo.

Ed è proprio la Corte di cassazione che individua la ragione di questa norma nella duplice esigenza di evitare possibili strumentalizzazioni dell’intervento giudiziario cautelare per fini politici, e di tutelare la volontà popolare manifestantesi nelle funzioni elettive. L’Autorità Giudiziaria fa il suo dovere quando persegue fatti di reato, più che mai se in danno della pubblica amministrazione e dunque della intera collettività; ma le modalità con le quali essa decide di operare, con particolare riguardo alla privazione della libertà personale dell’indagato prima del giudizio, sono frutto esclusivo del suo potere discrezionale, il cui esercizio non può prescindere da valutazioni di sistema, e dalla esatta comprensione dei valori messi in gioco da quelle scelte.

Insomma, si può ben indagare un Presidente di Regione in carica, senza adottare misure privative della sua libertà. Una riflessione più attenta ed allarmata sul valore essenziale, in una democrazia, del rispetto e della salvaguardia delle funzioni pubbliche esercitate per volontà sovrana dell’elettorato, andrebbe fatta, al momento di adottare, con quelle singolari motivazioni, quelle cruciali scelte discrezionali che, nei fatti, colpiscono al cuore, e ben prima del giudizio, “l’ufficio elettivo ricoperto per diretta investitura popolare”.

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