Non ricordo pronunce della Giunta delle elezioni della Camera dei deputati che non recassero uno strascico polemico, più o meno infuocato, da parte del parlamentare escluso dal suo scranno dopo averlo occupato per un bel po’ di tempo. Parliamo, infatti, dell’organo della Camera – un altro analogo, ma con più ampie competenze, opera al Senato – chiamato a valutare i titoli di ammissione di ciascun deputato: dalla regolarità dell’elezione a eventuali motivi di ineleggibilità o incompatibilità con il mandato parlamentare. La pronuncia della Giunta, votata poi dall’Aula, diventa il verdetto finale: il soccombente raccoglie mestamente le sue carte e toglie il disturbo. Il subentrante è già dietro la porta ed entra nell’Assemblea con incedere pimpante.

L’episodio

È accaduto anche questa volta, con un esito che ha visto l’esclusione di una deputata calabrese del Movimento 5 Stelle a vantaggio di un corregionale di Forza Italia. Si trattava dell’esito della verifica fatta dalla Giunta del risultato elettorale del 2022 in un collegio uninominale calabrese, a seguito di ricorso e riconteggio di voti. La bislacca legge elettorale, che garantisce la nostra rappresentanza, prevede che vi sia una simmetria perfetta tra chi vota il candidato nel collegio uninominale e la sommatoria dei voti raccolti dalle liste (bloccate) collegate in quota proporzionale, dimodoché non esista nessuna possibilità di voto disgiunto e di scelta intuitus personae. Per farla breve: chi vota per ciascuna delle liste bloccate in quota proporzionale, automaticamente porta il suo obolo elettorale al candidato unico di coalizione in quota maggioritaria, con buona pace della scelta dal basso. Insomma, chi viene eletto – così come chi deve andarsene – deve tutto soltanto al suo capo (o capa) che l’ha messo in lista e non al suo personale rapporto col corpo elettorale.

Comunque, anche se la qualità personale del candidato non appare un argomento rilevante, sicuramente lasciare la postazione parlamentare, i suoi annessi e i suoi connessi – soprattutto adesso che con la riduzione si sta così larghi nell’Aula ornata dall’ingegno pittorico del Sartorio – non dev’essere una bella esperienza. E allora diventa comprensibile la reazione che tende a buttare tutto in politica: “Mi hanno fatto fuori perché la maggioranza ha votato per pregiudizio politico, in barba alla volontà popolare”. In realtà, ben oltre la buona fede dei componenti della Giunta, sicuramente piena e inattaccabile, è difficile non andare con la mente al fatto che a giudicare non è la Cassazione, né la Corte Costituzionale, ma una Commissione parlamentare composta da deputati eletti in liste politicamente caratterizzate e appartenenti a gruppi parlamentari ideologicamente configurati. Parliamo di un organo che, nonostante la delicatezza delle competenze, la straordinaria qualità dei Consiglieri parlamentari e funzionari che lo affiancano e la presunzione di terzietà dei deputati (ma così è anche per la Giunta gemella del Senato), ha mani e piedi infilati nella politica. E questo basterebbe a porre qualche problema.

Si ricorda nei manuali di diritto parlamentare il caso Berlusconi, due volte oggetto di istruttoria da parte delle Giunte per presunta ineleggibilità ai sensi del Testo Unico (n.361/1957) delle leggi per l’elezione della Camera dei deputati, come “rappresentante legale di società o di imprese private (che) risulta vincolato con lo Stato per contratti di opere o di somministrazioni, oppure per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica”, e due volte mandato compatibile a maggioranza con strascico infinito di dibattito politico e dottrinario. Certo: avere una legge seria sul conflitto d’interessi aiuterebbe non poco, ma ormai parlare di queste cose è come tenere una conferenza sulla dieta tibetana in sanscrito puro.

Nel frattempo, forse, aiuterebbe riflettere se non sia il caso di devolvere il giudizio a organi terzi, fuori dal recinto della politica e delle maggioranze parlamentari. Potrebbe sembrare un’eresia di questi tempi, ma forse non lo è: togliere la competenza dai “pari” e consegnarla a un giudice indipendente potrebbe essere la soluzione più equa. Serenità di giudizio e terzietà avrebbero qualche chance in più. Soprattutto l’avrebbe la percezione del processo che porta alla decisione, salvo da ogni tentazione di appartenenza politica.