L'udienza della Corte Cosituzionale
Così la destra ha salvato l’ergastolo (e la Consulta)

1. Il lapsus mente raramente. La dice lunga, quindi, quel «carcere ostativo» (invece di «ergastolo ostativo») pronunciato alla Camera dalla presidente Meloni in replica al dibattito sulla fiducia al governo. Traducibile nell’hastag #iorestoincarcere, svela l’intima adesione a una teologia della dannazione perenne («fine pena mai», «deve marcire in galera», «buttare via la chiave») che è l’esatto contrario del riscatto rieducativo iscritto in Costituzione. Non a caso, è stata già depositata da Fratelli d’Italia la proposta di legge costituzionale per la modifica dell’art. 27 Cost. (AC 116). Leggetela. Vi si afferma «la netta volontà di subordinare e limitare la finalità rieducativa della pena» a favore delle esigenze di difesa sociale, così da sdoganare «la possibilità, per il giudice, di irrogare pene esemplari».
È in questo orizzonte che si inserisce il decreto legge n. 162, in vigore dal 31 ottobre, contenente «misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari» in assenza di condotte collaboranti. Diverso era il titolo del testo unificato, approvato alla Camera nella scorsa legislatura e ora travasato nel provvedimento del governo: «Disposizioni in materia di accesso ai benefici penitenziari» per i non collaboranti (AS 2574). «Accesso», non «divieto». Torno a dire: il lapsus mente raramente.
2. Sbobiniamo quanto è accaduto. L’ergastolo ostativo è certamente illegittimo, laddove individua nel collaborare con la giustizia l’unica via possibile per accedere alla liberazione condizionale. Nell’accertarlo, la Consulta ha sollecitato il Parlamento a ridisciplinare l’istituto in conformità alla Costituzione, concedendogli un tempo congruo per farlo. Nella scorsa legislatura la Camera aveva approvato una riforma, il cui iter legislativo non si è concluso in Senato «solo a causa dello scioglimento [anticipato] delle camere». Nel frattempo incombeva la data odierna dell’8 novembre, fissata dalla Consulta per adottare la propria decisione in assenza di un intervento legislativo. Ecco perché solo un provvedimento del Governo, di cui «è indubbia la ricorrenza dei presupposti di necessità e urgenza», poteva consentire di adempiere in tempo ai moniti della Corte costituzionale.
Questa è la narrazione accreditata nella relazione illustrativa e nel preambolo del decreto legge. Evidentemente persuasiva per il Quirinale, che lo ha firmato senza rilievi di sorta, nemmeno nella forma soft dell’emanazione con dissenso (secondo una prassi introdotta dal suo predecessore, Giorgio Napolitano). Eppure i decreti legge si giustificano solo a fronte di «casi straordinari» (art. 77, comma 2, Cost.), cioè imprevedibili, e tale non può certo considerarsi un’udienza iniziata 18 mesi fa e calendarizzata da tempo. A Palazzo della Consulta ne saranno certamente sollevati. Lo jus superveniens giustificherà la restituzione degli atti al giudice che aveva eccepito l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo (la Cassazione, sez. I penale): ad esso spetterà verificare la rilevanza processuale della nuova disciplina e le sue eventuali criticità costituzionali, anche alla luce delle possibili modifiche inserite in sede di conversione. Se e quando verrà riproposta la quaestio, solo allora la Consulta giudicherà la conformità a Costituzione delle norme effettivamente introdotte dal legislatore. Oggi, i giudici costituzionali potranno cavarsela con una nuova ordinanza interlocutoria, dopo le due precedenti con le quali ogni decisione era stata rinviata allo scopo di rimettere in termini il Parlamento. Messe in fila, esse rivelano un qualche timoroso imbarazzo nel rispondere a un’ovvia domanda: quando dichiarerete l’incostituzionalità di un regime che pure ritenete incostituzionale? «Non ora» (ord. n. 97/2021); «non ancora» (ord. n. 211/2022), «chissà» (ordinanza odierna).
Alle camere è certa la conversione del decreto legge, ricalcante un testo approvato quasi all’unanimità nella scorsa legislatura. Nessun gruppo parlamentare potrà credibilmente sottrarsi al mantra, ripetuto come un atto di fede, secondo cui l’ergastolo fino alla morte è uno strumento irrinunciabile nel contrasto alle mafie: in ciò, davvero, l’unione fa la forca (e questo non è un lapsus). Fratelli d’Italia, all’epoca contrari alla riforma perché scaturita da «gargarismi garantistici» (così l’on. Delmastro Delle Vedove, oggi neo-sottosegretario alla Giustizia), potranno sempre tentare di emendarla in peius, innestando altre norme nella già sadica articolazione numerica del nuovo art. 4-bis ord. penit., con i suoi commi 1-bis, 1-bis.1, 1-bis.2. Le norme bis sono, da sempre, la maschera di obbrobri giuridici.
3. Dunque, l’ergastolo ostativo è stato riformato. Eppure la premier rivendica, «fiera», di averlo conservato. La contraddizione si scioglie nel gioco tra apparenza e sostanza normativa.
Il decreto legge, infatti, ammette la possibilità anche per gli ergastolani non collaboranti di dimostrare l’assenza di legami con il crimine organizzato, ai fini dell’ammissione alla liberazione condizionale. In tal modo, l’originario manicheismo secondo cui «o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi» viene meno, e con esso ogni illegittimo automatismo legislativo. È stato così rimosso il cellophane della presunzione assoluta che avvolgeva l’ergastolo ostativo, ora imballato con una presunzione relativa, suscettibile di prova contraria, valutata dal giudice caso per caso. Tanto basta per dire – come ha fatto il distratto Guardasigilli – che le criticità costituzionali segnalate dalla Consulta sono state superate. Ciò è vero, ma solo formalmente. In realtà, il contenuto del decreto legge configura una stretta alla concessione di qualsiasi beneficio penitenziario, tale da renderla concretamente irrealistica. Vale specialmente per la liberazione condizionale, modificata anche nella sua disciplina sostanziale. Così però l’ergastolo ostativo, intollerabile a parole, risulta tollerabilissimo nella realtà. È superato de jure, ma non de facto.
4. Un primo giro di vite è nell’incremento dei reati ostativi. L’ostica formula tecnica che apre il decreto legge (il divieto di sciogliere il cumulo di pene concorrenti, in caso di accertata connessione teleologica tra reati) produrrà l’effetto di trascinare nel regime penitenziario ostativo delitti altrimenti comuni. Prosegue così la malsana abitudine di ampliare la già lunga blacklist dell’art. 4-bis. L’effettività rinnegante della nuova normativa emerge, poi, nell’abnorme facondia di condizioni da soddisfare per accedere a qualsiasi misura extramuraria. Non sono sufficienti, infatti, le risultanze positive del percorso trattamentale. Né gli ulteriori elementi che comunque il giudice dovrà considerare: dalle circostanze personali e ambientali alle ragioni dedotte a sostegno della mancata collaborazione, dalla revisione critica della propria condotta criminosa alle iniziative a favore delle vittime, fino a ogni altra informazione disponibile. Serve altro. È necessario dimostrare l’adempimento delle obbligazioni civili conseguenti alla condanna (o «l’assoluta impossibilità» di adempiervi).
È necessario dimostrare l’assenza di collegamenti attuali, «anche indiretti o tramite terzi», con la criminalità organizzata e con «il contesto» (?) nel quale il reato è stato commesso. È necessario allegare elementi specifici che escludano il pericolo di un futuro «ripristino» di tali collegamenti (autentica probatio diabolica). Contestualmente, vanno disposti accertamenti patrimoniali nei confronti del reo e del suo nucleo familiare. Siamo di fronte a un perenne “non basta”, introdotto intenzionalmente per rendere difficili cose complicate attraverso richieste impossibili, tanto più se rivolte a ergastolani ristretti in carcere da decenni. Che il decreto legge sia orientato a ostacolare il loro diritto alla speranza emerge anche dalla nuova configurazione della liberazione condizionale. La sua concessione slitta sempre più nel futuro, con l’estensione a 30 anni (contro i 26 attuali) del termine per accedervi e a 10 anni (contro i 5 attuali) della durata della successiva libertà vigilata. È peggio che prima della legge Gozzini. Così, per l’ergastolano non collaborante, il tempo della detenzione si dilata fino a togliere il respiro, obbligandolo ad un’apnea esistenziale prossima a renderlo postumo in vita.
E ancora. Il decreto legge abroga i casi di collaborazione impossibile o irrilevante, assorbiti nella più generica ipotesi di «assenza di collaborazione con la giustizia» all’interno della kafkiana procedura di accesso ai benefici penitenziari già descritta. Viene così sbarrato il solo ponte verso misure extramurarie fino ad oggi transitabile da tutti i condannati per reati ostativi, ergastolani compresi, quando veniva accertata una loro inesigibile collaborazione. Scelta doppiamente irragionevole. Perché non si può chiedere di fare ciò che è impossibile fare, come accade se la collaborazione non è «naturalisticamente e giuridicamente» esigibile (sent. n. 89/1989). Perché non sono assimilabili le posizioni di chi è silente “per scelta” e di chi lo è “suo malgrado” (avendo poco o nulla da riferire per la limitata partecipazione al reato o per l’integrale accertamento di fatti e responsabilità o perché vittima di errore giudiziario): lo ha ribadito la Consulta con una recente sentenza (n. 20/2022) che il provvedimento governativo ignora o finge di ignorare. Questa, nell’essenziale, è la pista da cui dovrebbe decollare, verso il rientro in società, l’ergastolano ostativo che abbia dato prova di «sicuro ravvedimento» (art. 176 c.p.). Cadrà nel vuoto, come un aeroplanino di carta.
5. Alla fine – come denuncia, non a torto, l’UCPI – l’operazione gattopardesca messa in piedi si rivela un «espediente solo formale» per accreditare l’attuazione dei moniti della Consulta, in realtà aggirati con «un vero e proprio atto di ribellione» normativa. Vedremo, oggi, se e come la Corte costituzionale troverà il modo di replicare.
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