Cresce il potere della magistratura
Così l’accusa si è impossessata del processo

Il “fall out” (visto che l’inglese va di moda) della scarcerazione di alcuni soggetti detenuti al regime di 41 bis, suggerisce alcune riflessioni che superano la portata dell’episodio, perché lo stesso si colloca in un quadro generale più ampio. A prescindere o meno dalla correttezza della decisione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari (che molti non avranno neppure letto e che personalmente ritengo assolutamente corretta) quello che lascia stupefatti è la virulenza dell’aggressione verbale ai giudici che, collegialmente, con la presenza di esperti (sulla base di atti processuali, tecnici, giudici, amministrativi) hanno assunto quel provvedimento, peraltro, impugnabile.
Avevo sentito e approvato a più riprese da consigliere del Csm la “famosa” nota del presidente Ciampi che ribadiva la legittimità delle critiche se queste non determinavano la delegittimazione dei magistrati. Quante pratiche a tutela sono state aperte negli anni 2002–2006, e successivamente. Spero che lo si faccia anche per la magistratura sassarese, anche se questa volta le censure vengono dall’interno dello stesso Consiglio. Prescindo anche dai risvolti più strettamente politici connessi alla nomina del nuovo Capo del Dap, alle dimissioni del suo precedente direttore, all’integrazione della struttura con la nomina di un vicedirettore, se non per sottolineare che si tratta di pubblici ministeri, tutti pubblici ministeri e tutti in qualche modo pubblici ministeri antimafia, a vari livelli nella struttura delle procure.
L’episodio supera la riferita questione che, peraltro, ripropone il tema della collocazione fuori ruolo dei magistrati nei gangli dell’apparato amministrativo inserito nel potere esecutivo, di cui si amplifica il significato. Tutto ciò, senza considerare – ancora una volta, a distanza di alcuni mesi – lo sfondo della lotta di potere, che sta travolgendo la magistratura, della quale si aspetta la riforma e l’autoriforma. Come era (forse) prevedibile, la distribuzione degli equilibri dentro il processo penale del 1988 ha innestato alcune dinamiche che la ridistribuzione degli stessi nel tempo ha accentuato. L’affinamento dei ruoli e delle professionalità ha inciso fortemente sulla collocazione delle procure dentro la magistratura e nel contesto dell’attività giudiziaria.
Con la “complicità” dello spostamento del baricentro del processo nella fase delle indagini e del recupero del precedente investigativo a dibattimento, il potere processuale del pubblico ministero si è esponenzialmente rafforzato, integrato dalla “visibilità” dell’azione svolta dagli uffici della pubblica accusa in sinergia con l’attività della polizia giudiziaria, di cui dispone. Questi elementi sono alla base della configurazione di un magistrato che metabolizza il proprio ruolo, ritaglia gli sviluppi professionali e di carriera sui poteri che gli son conferiti, così da incardinare una figura non suscettibile di alternative: si diventa e si vuole restare il magistrato dell’accusa. Del resto, il sempre maggior tecnicismo nello svolgimento delle indagini (criminalità organizzata, economica, internazionale) richiede la presenza di un soggetto metodologicamente e culturalmente attrezzato.
Il reato plasma il soggetto e la funzione svolta. L’originaria struttura del codice, imperniata sulla centralità del dibattimento, governato da un giudice “forte” teso a controllare la rappresentazione del fatto non richiedeva la presenza nella fase precedente di un altro ufficio giudicante, egualmente “forte”: era del tutto inopportuno, del resto, contrapporre con funzione di merito a contrappeso di un pubblico ministero originariamente teso alla mera ricostruzione del fatto. Si trattava, cioè, di una figura processuale – si diceva – né forte, né debole, ma autorevole, in quanto capace pur nella precarietà di poteri probatori, deliberare e delibare, non decidere, avendo quali parametri di raffronto le garanzie costituzionali e le previsioni processuali.
Non può non segnalarsi che, a fronte del consapevole e voluto gigantismo dell’accusa, il giudice delle indagini non si è attrezzato – difettandogli spesso gli strumenti processuali – per costituire un adeguato ribilanciamento dei ruoli e delle funzioni. L’ufficio dell’accusa è di fatto fuori da un vero controllo processuale ed ancor di più lo è la procura nazionale antimafia, senza pensare cosa sarà del futuro pubblico ministero europeo. Si potrebbe dire che ormai il discorso della cosiddetta separazione delle carriere e/o delle funzioni si sia realizzato nei fatti, nella strutturazione soggettiva e istituzionale dei procuratori e degli uffici delle procure.
Questa distribuzione del potere processuale fa male al processo, alla sua funzione, anche perché la debolezza del giudice lo attrae inevitabilmente nella stessa logica del potere più consolidato e strutturato, in qualche modo ulteriormente legittimandone le funzioni e le attività. Le dinamiche del potere e dei poteri sono insuperabili, anche quando se ne sia consapevoli. Bisogna ripensare questi elementi, ridefinendo ruoli e funzioni, nella complessità del modello. Pur nella piena consapevolezza di quanto detto, sia da parte dei giudici più attenti, sia da parte degli operatori di giustizia, sia da parte della dottrina, la prospettiva è considerata remota. Non è facile e non sarà agevole, anche perché chi ha il potere non è disposto a cederlo, se non a ragione dei propri errori ovvero per un eccesso di arroganza o di presunzione. Qualcosa c’è, ma non basta ancora.
© Riproduzione riservata