Il caso del carcere Beccaria
Cosima Buccoliero: “Ecco perché il carcere ai ragazzi fa male”
Mentre parliamo è già diffusa la notizia che ormai tutti e sette i ragazzi dell’Istituto Cesare Baccaria di Milano sono, in modo più o meno volontario, tornati. La fuga della notte di Natale è durata poco più dello spazio di un mattino. E lei, Cosima Buccoliero, dirigente penitenziaria, pugliese trapiantata a Milano, è perentoria nel dire che per i minori il carcere non è solo inutile, ma addirittura “dannoso”.
“I danni della reclusione sono sicuramente superiori alle opportunità che la struttura può mettere a disposizione. Anche se sono tante e importanti le iniziative che luoghi come il Beccaria possono offrire, ci sono poi i tempi morti, il vuoto che non sai come riempire. E la noia, la grande nemica del carcere. La noia che produce angoscia e poi autolesionismo o aggressività” . La fuga di Natale è tutta lì. A mostrare il non senso della gabbia che rinchiude, l’assurdità, condivisa anche da una persona che di mestiere fa la “carceriera”, di tenere prigionieri ragazzi che hanno tutta la fragilità dell’adolescenza, accompagnata ormai da forti disagi psichici, moltiplicati dopo l’epidemia di covid. Che fare dunque di questi 400 adolescenti che stanno rinchiusi? “Rafforzare l’organizzazione delle comunità, dedicare maggiore attenzione ai problemi della tossicodipendenza e della salute mentale, per come si presentano oggi, nel 2022”. Ma prima di tutto, questi 400 tirarli fuori. Per loro “il carcere è dannoso”.
La dottoressa Buccoliero è provvisoriamente direttrice del carcere torinese Le Molinette. “Provvisoriamente” non lo dice lei, ma lo sappiamo noi, vista la sua candidatura come capolista “civica” del Pd alle prossime elezioni regionali in Lombardia. Non vuole parlarne, in questa intervista, per non mescolare i ruoli. Oggi indossa il suo vestito di “carceriera”, e non è un abito arcigno, perché lei è una pioniera, insieme a Luigi Pagano e Lucia Castellano che ne furono i primi direttori, della nascita di Bollate. Quell’istituto che un giorno il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri definì un semplice “spot”. Che ne pensa, dottoressa? “Noi abbiamo sempre agito e costruito, prima di comunicare, con esperimenti a volte anche andati male. Ma abbiamo continuato a provare”. I risultati sono arcinoti, a fronte di una generale recidiva del 70% dei casi tra gli ex detenuti, per quelli di Bollate non si arriva al 20%.
Un’altra proposta del procuratore Gratteri, e non è il solo, è quella di costruire nuove carceri, per ovviare al problema storico del sovraffollamento. Cosima Buccoliero inorridisce: “Assolutamente no, magari per metterle in mezzo al nulla, nel vuoto di luoghi separati e disumani? Meglio far crescere le misure alternative, come del resto la legge prevede. Bisogna ridurre al minimo il numero dei detenuti. Fare in modo che le persone proprio non entrino”. Pensiamo di aver fatto bingo. Invece. Ma allora lo aboliamo l’orrore del carcere? Serve a qualcosa? “Come comunità in questo momento non possiamo liberarci da questa necessità. Ma si può ridurla al minimo e poi trasformare e riformare”. E’ ancora Bollate che ritorna. La direttrice ha scritto un libro, con la giornalista Serena Uccello, e il titolo Senza sbarre (Einaudi) dice tutto. Ci sono particolari che colpiscono, come l’uso della parola “camera” invece che cella. “Lo dicono anche le circolari, perché si tratta di stanze di pernottamento, dove si va solo a dormire, e questo è un valore”.
Sorride nel ricordo di aver scandalizzato un collaboratore dell’ ex presidente della Camera Laura Boldrini, in visita all’istituto, quando le aveva sentito dire che gli ergastolani avevano diritto a una camera singola. Come mai? “Perché così stanno meglio”, aveva semplicemente risposto la direttrice. Che è stata anche dirigente nel carcere di Opera, dove di condannati al “fine pena mai” ne ha incontrati parecchi. Inutile sottolineare l’angoscia di chi cerca di impegnare in un programma persone che non possono avere progetti se non da rinchiusi. Ma la domanda sull’ostativo è un po’ obbligata. “Bisogna fidarsi dei giudici e tribunali di sorveglianza. Abbiamo visto casi di persone che con il trattamento hanno fatto percorsi straordinari. E questi magistrati hanno tutti gli strumenti e gli elementi per valutare”. Aprire, quindi.
Ci sono due concetti che stanno alla base della possibilità di vincere la scommessa del cambiamento con chi ha rotto il patto di solidarietà con la società. Uno è il concetto di comunità. A Bollate, la formazione professionale del personale, le porte aperte e il grande impegno nello studio e nel lavoro, hanno creato una comunità in cui non esistono quelli che sono chiusi e quelli che chiudono e gettano la chiave, ma programmi realizzati insieme. L’altro concetto è quello del patto, un vero contratto scritto tra l’istituzione e il detenuto. “Io ti scrivo tutto quello che ti offro e tu ti impegni nella responsabilità di mantenere il patto”. In questo modo si rovescia il cliché del carcere.
Ma come è venuto in mente a una giovane laureata pugliese, una che è nata nel 1968 mentre i giovani erano più nelle piazze che a scuola e che racconta di non esser quasi mai lei stessa, quando ne ha avuto l’età, andata a manifestazioni, di diventare una “carceriera”? “Ho sempre avuto fretta, prima di laurearmi, poi di fare concorsi. Ho pensato alla magistratura, ma poi mi ha colpito quel che diceva il professor Onida, che il diritto è carne e sangue, e ho capito quel che volevo fare. Il mio primo incarico è stato a Cagliari, dive il carcere era una struttura fatiscente. Ma nei primi incontri con i detenuti ho intuito come calare il diritto nella vita e come farlo diventare carne e sangue”.
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