Ci stiamo assuefacendo al numero dei morti
Covid e vittime. Mors tua, vita mea…
Nei dibattiti televisivi la domanda ricorrente che viene fatta a politici e medici è quante persone possono sedere insieme alle tavole delle feste natalizie, per evitare contagi. Nessun accenno a quante mancheranno quest’anno al tradizionale appuntamento che vede riuniti famigliari e amici. Tenuto conto del numero dei decessi, che negli ultimi giorni in Italia ha sfiorato i mille, dobbiamo pensare che i posti vuoti saranno tanti e tanti, negli interni delle case, a ricordare con dolore chi manca. Eppure, per quello scarto che ancora resta tra il singolo e la collettività, l’attenzione pubblica sembra concentrata sulla conta dei morti che, «senza lutti, senza funerali», come ha scritto Christian Raimo, ci vien comunicata ogni sera, senza essere accompagnata dagli interrogativi e dalle preoccupazioni che ci si aspetterebbe. Lo stesso Presidente del Consiglio, illustrando il nuovo Dcpm, in diretta da Palazzo Chigi il 3 dicembre, non ne ha fatto cenno.
Dietro la crescita impressionante dei numeri spariscono volti e nomi, così come il dove e il come di quelle perdite. I morti tacciono, è il titolo inquietante di una novella di Arthur Schnitzler. In realtà sono le loro vite che precipitano nel silenzio, quando diventano una massa indistinta e anonima da cui si ha fretta di distogliere sguardi e riflessione. È paura, indifferenza, rimozione, o il fatto che, trattandosi in netta prevalenza di anziani, la loro morte si dà per scontata, come se si trattasse di accettare, più o meno consapevolmente, una sorta di sotterranea eugenetica che il covid ha solo accentuato? Io parlerei piuttosto di “assuefazione”. Così la definisce il dizionario Treccani: «Assuefare e assuefarsi a un clima, a un genere di vita, a un farmaco (…) fenomeno che si verifica nell’organismo per effetto della somministrazione continua di un farmaco (analgesici, tranquillanti, ecc.) per cui viene a diminuire, o addirittura ad annullarsi, la sua efficacia…». Tenuto conto che l’aggiornamento è quotidiano, il numero dei morti non si può ignorare, per cui quello che viene meno, più o meno consapevolmente, è l’empatia, il sentimento che si accompagna al dolore della perdita, anche di chi non conosciamo, la compassione nel suo senso più profondo, come partecipazione alla sofferenza dell’altro.
Si potrebbe parlare di una sorta di anestesia che si prova guardando al numero dei decessi e non a chi ci sta dietro. Anche la corsa allo “svago” , più che una cancellazione dei lutti, assomiglia a quel bisogno di sopravvivenza che Elias Canetti associa al detto medioevale “Mors tua, vita mea”. Per quanto sia difficile riconoscerlo, anche quando ci lascia qualcuno vicino a noi – come scrive Rossana Rossanda – «in fondo, in qualche modo, il sopravvivere agli altri alimenta l’idea falsa e onnipotente di una nostra solitudine dovuta al fatto che loro sono morti e noi no». (R. Rossanda, M. Fraire, La perdita, Bollati Boringhieri 2008). Se non si vuole arrivare a dire che, dietro l’assuefazione, in una società di massa guidata da logiche produttivistiche e competitive, c’è, stando al pensiero di Canetti, la sopravvivenza come potere – “vivere sopra”, “vivere a spese altrui” -, bisogna riconoscere che la pandemia, e in particolare “l’immunità di gregge” vista come un traguardo, hanno aperto uno squarcio su ciò che è rimasto finora “l’impensabile” e “irrappresentabile” della morte, ma anche sugli anni e le infermità che la precedono.
Il bisogno di cura, la dipendenza dagli altri in particolari fasi della vita, come l’infanzia, la vecchiaia, la malattia, sono elementi costitutivi dell’esperienza umana, eppure non hanno mai avuto la centralità che meritano, sia per l’etica pubblica sia per la teoria politica. È una svalutazione che non possiamo attribuire solo al neoliberismo, che oggi mette al lavoro la vita intera per restituirla come un vuoto a perdere quando diventa “improduttiva”. Una ragione meno indagata penso si debba cercarla nel dominio del sesso che ha riservato a sé la sfera pubblica, lasciando alla donna la funzione di continuatrice della specie, identificata come tale col corpo e le sue traversie. Fuori dalla polis, insieme a metà del genere umano, sono rimaste a lungo le esperienze che hanno la materialità del nostro essere, le nostre radici biologiche, come parte in causa. Consegnati alla natura e al privato, l’invecchiamento e la morte hanno subito la sorte di tutto ciò che è stato considerato “non politico”, e perciò anche fuori dalla storia e dalla cultura.
Nel suo libro Ai confini del corpo, Il filosofo Franco Rella scrive: «Il quesito non poteva che essere quello estremo: come dare figura alla morte, e a quella morte in vita che è la vecchiaia, come impedire che la ribellione alla finitezza umana continui a generare una violenza mortifera, come impedire che il sentimento dell’ultimo, invalicabile confine produca anche lo sgretolamento definitivo della parola che vorrebbe rappresentarlo» (ed. Garzanti 2012). Con la pandemia si può dire che la morte, non solo è uscita dal privato, vissuta spesso con dolore nell’isolamento di un letto di ospedale, lontano da parenti e amici, ma che rischia di essere spogliata del suo carico esistenziale quando a farla apparire sono solo i numeri di quanti sono stati colpiti mortalmente dal contagio.
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