Lo chiamavano “the wonderful boy”. Il ragazzo meraviglioso. E Stephen Crane, nella letteratura americana, lo è stato davvero, anche se la sua magica stella brillò soltanto una notte: quella della giovinezza precocemente strozzata perché morì di tubercolosi in un sanatorio della Foresta Nera a soli ventinove anni, nel 1900, all’inizio del secolo più tormentato della nostra storia.
Ultimo figlio di un pastore metodista, era nato a Newark, trovando subito, nella metropoli adiacente, un ambiente formativo a lui congeniale. Magro come un chiodo, con gli occhi grandi e febbrili che affascinarono molte donne, consumò la classica candela da entrambi i lati riuscendo a vivere in una sola troppo breve esistenza tali e tante esperienze da lasciare a bocca aperta i futuri biografi, i quali lavorando di cesello sulle sue disavventure ci hanno costruito sopra una piccola leggenda finendo per oscurare, come spesso accade, le qualità intrinseche dell’opera.
Crane scrisse un numero impressionante di racconti lunghi e brevi, e alcuni notevoli versi, primi fra tutti quelli compresi in The Black Riders, studiò lettere e mostrò di essere anche un buon giocatore di baseball, si sposò con una ex direttrice di bordello, fu marinaio e giornalista, viaggiò, oltre che nel suo Paese e in Messico, da una parte all’altra del mondo come corrispondente di guerra in Europa, nel conflitto greco-turco e a Cuba dove nel 1898 si fronteggiarono per la conquista dei Caraibi l’esercito a stelle e strisce e quello spagnolo.
Proprio a quest’ultimo evento si riferiscono gli articoli di Wounds in the Rain: War Stories, recentemente pubblicati a cura di Fabrizio Bagatti, in prima traduzione italiana, con uno scritto di Willa Cather, ammiratrice di Crane, presso Castelvecchi con il titolo Ferite nella pioggia (pp. 224, 17,50 euro). Basterebbe citare l’inizio del primo contributo, Il prezzo della divisa, per capire di cosa stiamo parlando: “Venticinque uomini scavavano un sentiero a mezza costa. Le batterie leggere alla retroguardia erano impazienti di muoversi, ma prima bisognava fare tutto quel lavoro di sterro e livellamento che, in tempo di guerra, non fa guadagnare medaglie prestigiose. Gli uomini lavoravano come giardinieri, e dalla vecchia mulattiera stava spuntando una strada.”
Si percepisce già qui la sprezzatura ironica che caratterizzò il suo stile al tempo stesso impassibile e vibrante fornendo appoggi significativi, ancorché imperscrutabili, a Dreiser, Anderson, Lewis, Fitzgerald, financo Norman Mailer. Il sasso che il giovane scrittore gettò nel lago produsse impercettibili increspature dell’acqua fin quasi ai giorni nostri. Da dove proveniva tale sensibilità lirica?
In particolare gli ambienti urbani squallidi e ventosi della Bowery, a New York, là dove l’oceano Atlantico incontra il mattonato grigio dei barboni mezzi ubriachi seduti a cavalcioni sulle scalette antincendio poste accanto ai treni a vapore della sopraelevata, suggerirono a Crane, all’epoca in cui era ancora quasi adolescente, la desolata storia di una povera fanciulla costretta al suicidio per sfuggire alla prostituzione: Maggie, romanzo breve di stralunata evocazione maupassantiana, composto in pochi giorni e pubblicato a proprie spese senza riscontro alcuno. Il successo gli arrise invece col Segno rosso del coraggio, targato 1894, divenuto un classico, iniziazione all’età adulta di Henry Fleming nella battaglia di Chancellorsville, una delle più cruente della guerra civile americana: mai combattuta dall’autore, ma reinventata grazie a indimenticabili sequenze visive, attraverso il filo tematico del riscatto dopo la vigliaccheria, vale a dire ciò che sarà, pochi anni dopo, il fulcro essenziale di Lord Jim, capolavoro di Joseph Conrad, il quale peraltro conobbe personalmente Sthepen Crane a Londra e gli rese implicito omaggio. Così come fece Ernest Hemingway che pure lo redarguì severamente quale reporter bellico: ma era soltanto un modo per pagare dazio al talento puro, cristallino, incontestabile, di questo prodigio letterario.
Notate il modo in cui, nei suoi risultati maggiori, ci fa sentire l’apprensione di una giovane coppia lanciata come una freccia verso l’avvenire: “La grande carrozza ferroviaria avanzava rapidamente, con una tal dignità di movimento che uno sguardo dal finestrino sembrava semplicemente dimostrare che le pianure del Texas si stavano riversando verso est. Vaste distese di erba verde, opache radure di mesquite e cactus, piccoli agglomerati di case di legno, boschi di alberi teneri e leggeri, tutto correva verso est, verso l’orizzonte, il precipizio.” (La sposa arriva a Yellow Sky). Oppure come ci fa vedere un albergo: “Il Palace Hotel di Fort Romper era dipinto di azzurro, quella sfumatura di azzurro che appare sulle zampe di una specie di airone, e che costringe l’uccello a dichiarare la proprio posizione contro qualunque sfondo. Il Palace Hotel quindi, gridava, urlava in un modo che faceva sembrare lo strabiliante paesaggio invernale del Nebraska grigio e silenzioso come una palude.” (La locanda azzurra). O ancora come illustra, in uno degli esiti più alti, la forza cieca dell’azione umana: “Nessuno di loro sapeva di che colore fosse il cielo. I loro occhi guardavano a pelo d’acqua, ed erano fissi sulle onde che si precipitavano loro addosso.” (La scialuppa).
Nelle corrispondenze cubane non è proprio al suo meglio. Ma, chiamato a descrivere, nei Ricordi di guerra, lo scarto insostenibile tra la banda cenciosa dei soldati feriti e gli affascinanti abiti estivi delle ragazze che prendono il sole sulla veranda dell’Hotel Chamberlain, ritrova lo spunto dei giorni più belli: “Quando quella folla cominciò a passare davanti all’albergo, le macchie di fiori emisero un rumore che faceva tremare. Forse era un gemito, forse un singhiozzo… ma no, era qualcosa che andava al di là del gemito e del singhiozzo. In ogni caso c’era dentro il suono del pianto delle donne. Il suono delle donne in lacrime”.