Prima era il populismo degli incompetenti. Ora è diventato il populismo dei competenti. Prima il popolo (sovrano) governava nel nome dell’uno-vale-uno. Ora governa nel nome dei comitati tecnico-scientifici. Da Toninelli a Colao, cioè. Ora sono la scienza e la tecnica che conferiscono al potere un’autorità indiscussa e indiscutibile. Ed è la verità della scienza che diventa il totem dato in pasto al popolo (sovrano). La legge del contrappasso, direbbe sogghignando il Sommo Poeta. Ma per la democrazia italiana non è una buona notizia. Al contrario, l’irruzione dei competenti è un altro passo verso una Costituzione materiale pericolosamente porosa.
Negli ultimi mesi, di fronte alle difficili scelte imposte dalla pandemia, Giuseppe Conte ha accentuato la precedente tendenza del suo governo a manipolare le forme della rappresentanza. Ha ignorato e poi messo in mora il Parlamento. Ha sostituito ai consigli dei ministri i pre-consigli, dove soltanto in pochi decidevano il da farsi. Ha utilizzato a piene mani il controverso strumento del Dpcm. Un fenomeno di accentramento dei poteri che sempre più ruotava sulla sua persona. Era Conte che garantiva la sopravvivenza del governo, essendo il mediatore fra le sue istanze contrapposte. Ed è stato Conte che ha inteso assumere le vesti del Conducator, presentandosi ad ogni pie’ sospinto sugli schermi televisivi per spiegare agli italiani cosa dovessero fare. Con un’ipertrofia mediatica di fronte alla quale le leadership di Merkel, Johnson o Macron impallidiscono.
Ma poi Conte ci ha “messo la faccia” soltanto in apparenza. Lui stesso – sempre e puntigliosamente – ha voluto specificare che nella gestione dell’emergenza le “sue” scelte si basavano sul parere degli esperti. E gli esperti cui si riferiva non erano le anonime reti di consulenti e funzionari che usualmente affiancano o dovrebbero affiancare i ministri, fornendo cioè ai politici le informazioni specifiche e prospettando loro le possibili soluzioni. La strategia dei giallorossi – e, più ancora, la strategia personale del premier – è stata piuttosto la creazione di vere e proprie autorità parallele, nominate ad hoc, affollate dei nomi più accorsati, annunciate con enfasi orgogliosa. Consessi “scientifici”. Dotati perciò del crisma inoppugnabile della scienza. Le politiche antiepidemiche e oggi le politiche di riapertura – si è detto ossessivamente agli italiani- sono basate sulle indicazioni del Comitato Tecnico-Scientifico della Protezione Civile, gran capo Angelo Borrelli, 12 membri.
Del Comitato Operativo della Protezione Civile, 21 membri. Della “Task force Miur per le emergenze educative”, un centinaio di membri. Del “Gruppo di lavoro data-driven”, oltre 70 membri. Della task force “Donne per un nuovo Rinascimento”, 13 membri. Della task force per la ripartenza presieduta da Vittorio Colao, 17 membri. Del gruppo facente capo al commissario Domenico Arcuri. Senza contare l’Istituto Superiore di Sanità di Silvio Brusaferro, il Consiglio Superiore di Sanità di Franco Locatelli, l’Agenzia Italiana del Farmaco, ecc. Una vera e propria selva di istanze, non di rado messe in piedi sulla base di inconfessati criteri cencelliani, le quali naturalmente rischiano di sovrapporsi, di allungare i tempi, di indicare strade divergenti, di entrare in conflitto.
Ma la loro funzione è evidente. Evidente sul piano politico e comunicativo, prima che funzionale. Costituiscono il ferreo principio di autorità dietro cui si nascondono i deboli decisori formali. Lo stesso Nicola Zingaretti, non il Re Travicello di palazzo Chigi, ha dichiarato a Huffington Post che «la Commissione Colao deve avere un ruolo centrale, perché solo una commissione autorevole e terza ci aiuterà a costruire un piano puntale e solido per l’Italia dopo il Coronavirus». I competenti diventano insomma la foglia di fico di una politica che è sempre pronta a mandare messaggi alla nazione a reti unificate, ma non intende assumersi la responsabilità che le competerebbe: la responsabilità della sintesi, della valutazione complessiva del quadro, della ponderazione degli (enormi) interessi in gioco. In una parola, la responsabilità della scelta politica.
Questo paese ha vissuto la buia stagione del dilettantismo ostentato, del questo-lo-dice-lei (Castelli a Padoan). Il populismo italiano ha avuto una caratteristica specifica rispetto ai populismi mondiali: ha coniugato l’attacco feroce alle élite e alla politica con il disprezzo delle competenze, della scienza, della tecnica. È stata la stagione delle scie chimiche, dei No-vax, delle superstizioni, dei leader senza pedigree e dei ministri grotteschi. Un copyright nato nei comizi di un vecchio comico e assurto nel 2018 a primo partito italiano. Un’onda plebea che si è mischiata con la Lega del papeete, così diversa dalla Lega del buon governo lombardo-veneto.
Che ha contagiato, oltre ai cespugli della sinistra, pezzi importanti del Pd. Ma la verità è che oggi, usciti dalla vertigine gialloverde, il paese sta entrando in un altro tunnel. La natura populistica del quadro politico resta immutata. La sostituzione, con repentino giro di valzer, dei dilettanti con gli scienziati è soltanto l’ultimo escamotage, la fragile zattera di salvataggio di una politica senza idee e senza neppure più il rispetto delle forme costituzionali. Umiliato il Parlamento, emarginati i partiti, affossata la dialettica maggioranza-opposizione, evaporato il necessario confronto fra le parti sociali, il potere punta a un dialogo diretto con la popolazione.
Chiede un plebiscito nei propri confronti. Pretende l’Union sacrée. Rotea il dito indice contro chi la pensa diversamente. Non si perita neppure di mandare minacce larvate ai giornalisti critici. Attende il solito aiutino della magistratura amica (è già arrivato). La democrazia italiana si sta snervando. Forse sarebbe il caso di suonare l’allarme. Per non svegliarsi domani nell’Ungheria di Orbán.