Erdogan non vuol essere legato mani e piedi alla Russia di Putin. Non può permetterselo. La Turchia è in una crisi economica tale da aver bisogno degli Stati uniti e dell’Europa. È per questa ragione che il tiranno turco sta raccomandando al Cremlino di riflettere sull’opportunità di fermare l’invasione e la guerra in Ucraina: la sponda europea e americana è al momento irrinunciabile per il Sultano. Ne ha bisogno per non annegare. L’inflazione annua di Ankara sfiora il 79%, il livello più alto degli ultimi vent’anni. Il valore della lira turca rispetto al dollaro precipita quotidianamente, si perde il conto dei continui ribassi. Erdogan, che controlla di fatto anche la politica monetaria turca, non ha intenzione di alzare i tassi di interesse, non vuole una politica anti-inflazionistica perché teme di perdere consenso con una politica di austerità.

Al presidente turco piace giocare a fare il banchiere centrale, negli ultimi cinque anni ha licenziato quattro governatori della Banca centrale e un gran numero di alti funzionari. Butta fuori chiunque osi prospettargli le conseguenze a medio termine dei suoi continui tagli al costo del denaro. Li licenzia perché non vuol sentire parlare di stringere la cinghia. Nel giugno del 2023 si vota in Turchia e non è proprio il momento per Erdogan di chiedere lacrime e sangue. Il Pil cresce a più del 7 per cento, ma questa crescita non produce ricchezza per tutti. Al contrario: aumenta la forbice tra ricchi e poveri. La Turchia esporta tanto ma è fortemente dipendente dalle importazioni per la produzione di beni, inclusi gli alimenti e i tessili. Ciò ha una conseguenza immediata sul prezzo dei prodotti di consumo. Ankara dipende totalmente dalle importazioni di energia e di materie prime. L’aumento dei prezzi sui mercati internazionali ha fatto crescere la spesa mensile in media a più di 30 miliardi solo nella prima metà dell’anno. A dicembre l’incremento dei costi sarà altissimo.

Erdogan, rimasto in sella nonostante le proteste sociali del 2013 e il tentativo di rovesciarlo nel 2016, s’è buttato tutto sul versante internazionale e sulla sua capacità di diventare il perno di ogni possibile movimento diplomatico per una soluzione negoziata della guerra in Ucraina. S’è speso per tessere relazioni proficue con tutti i grandi ricchi in Medio oriente nella speranza di attrarre fondi stranieri. Ieri a New York, a margine dell’assemblea Onu, ha incontrato il premier israeliano Lapid: non c’erano incontri a questo livello con il governo israeliano dal 2008.
Erdogan s’è rivenduto in casa come suo personale successo l’accordo sul grano ucraino. Ha avuto tutte le rassicurazioni che voleva dai Paesi nordici smaniosi di entrare di corsa nella Nato, ha ottenuto fondamentalmente la testa dei curdi rifugiati in cambio della rinuncia al veto turco all’ingresso di Finlandia e Svezia nell’Alleanza atlantica. Ha anche estorto a Joe Biden la promessa di sostenere la vendita di caccia F-16 alla Turchia, dopo che Washington aveva bloccato l’acquisto da parte di Ankara dei più avanzati F-35.

È un bluff l’annuncio che la Turchia avrebbe intenzione di chiedere la piena affiliazione alla Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco), l’alleanza antioccidentale di Pechino e Mosca stretta il 14 giugno del 2001 tra Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan. Sarebbe la prima volta per un Paese Nato, ma è una finta. È il solito gioco al rialzo che Erdogan fa quando vuole qualcosa da Washington. Lui pretende d’avere mani completamente libere per reprimere i curdi in Siria, non ha intenzione di rinunciare all’estradizione in Turchia di Fethullah Gülen, il leader islamista rivale rifugiatosi negli Stati uniti nel 1999. E vuole che la Casa bianca vigili su Svezia e Finlandia perché traducano in atti concreti gli impegni presi nel memorandum firmato con la Turchia nel giugno scorso in cui promettevano di sostenere Ankara contro i curdi (che il linguaggio criptato e ambiguo del memorandum chiama vagamente terrorismo antiturco ma che Erdogan legge come popolo curdo). Biden non ha preso impegni per un incontro formale con Erdogan durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite che terminerà il 26 settembre e così il Sultano ha fatto la sparata. Ma ha bisogno di atlantismo Erdogan, non può consegnarsi a Putin. Solo e semplicemente perché la lira turca che precipita, a meno di un anno dalle prossime elezioni, non glielo permette.