«Esortiamo tutte le parti a rispettare pienamente il diritto internazionale umanitario e i diritti umani, a proteggere i civili e le infrastrutture, compresi gli aeroporti, a consentire l’accesso a medici, osservatori dei diritti umani, personale umanitario e ad agire al fine di proteggere la popolazione civile, compresi gli sfollati interni, i migranti, i rifugiati, i richiedenti asilo e i prigionieri, anche attraverso l’impegno delle Nazioni Unite». Così si conclude il documento finale della conferenza di Berlino sulla Libia. Sarebbe bastata questa pretesa di rispetto degli obblighi internazionali della ex Jamahiriya per portare finalmente in quel paese quello che manca da sempre: il rispetto dello Stato di Diritto e una presenza strutturata dell’Onu che verifichi i progressi.

La conferenza di domenica ha riportato a livello multilaterale quello che fino a ora è stato intra-governativo. La gerarchia delle priorità e la mancata partecipazione diretta di Serraj e Haftar non lasciano ben sperare per il futuro. Certo, entrambi hanno acconsentito alla creazione di un meccanismo, anche militare, che monitori il cessate il fuoco e l’embargo sulle armi, ma senza il loro coinvolgimento personale il processo politico previsto non andrà da nessuna parte. Troppo spesso nella ricostruzione del conflitto libico si fa l’economia di due passaggi: a livello internazionale delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza adottate all’iinizio delle rivolte contro Gheddafi, a livello italiano del Trattato di Amicizia Italia-Libia del 2009. Il secondo oggi non ci interessa, il primo invece sì.

La risoluzione 1973 del marzo 2011 stabiliva molti dei punti fermi fissati nell’accordo del 19 gennaio, arrivando a imporre addirittura una no-fly zone per assicurare il cessate il fuoco – primo punto dell’accordo di Berlino – e scongiurare i “crimini contro l’umanità” commessi contro la popolazione civile. Quelle iniziative, ivi compreso l’interessamento della Corte Penale Internazionale che portò all’incriminazione del figlio di Gheddafi e del capo dei servizi segreti per crimini contro l’umanità, restarono sulla carta senza che nessuno dei paesi che votarono a favore di quelle risoluzioni si sia mai impegnato a farle rispettare. Si passò all’uso delle armi per “cause di forza maggiore” scongiurando il perseguimento della pace anche attraverso l’affermazione della giustizia internazionale.

È positivo che chi ha interessi, influenze e militari sul campo abbia deciso di non farsi la guerra in Libia, ma l’assenza dei belligeranti al tavolo delle decisioni e il blocco di porti e pozzi da parte di Haftar in concomitanza coi negoziati non lascia ben sperare per il futuro di pace e riconciliazione di un Paese da decenni alla mercé di violenze, discriminazioni e soprusi. Se Serraj e Haftar non si son incrociati a Berlino, quali sono le probabilità che andranno a sedersi fisicamente al tavolo che le Nazioni unite organizzeranno a Ginevra entro gennaio per dar seguito agli impegni che, tra le altre cose, prevedono la formazione di un governo di unità nazionale? E se anche dovessero acconsentire a condividere il governo con l’altro, cosa garantisce che il governo di unità nazionale libico funzioni a differenza di tutti gli altri quelli composti in passato nel tentativo di portare pace e sicurezza in paesi in conflitto?

Dopo il Consiglio Affari generali dell’UE la questione sarà davanti al Consiglio di Sicurezza; la formazione di comitati e commissioni di controllo composte da cinque amici di Serraj e cinque sostenitori di Haftar non potrà garantire che oltre alla cessazione delle ostilità si possa accompagnare la Libia verso un futuro civilmente e politicamente migliore. Se è stato significativo portare di nuovo il conflitto alle Nazioni unite, adesso è fondamentale portare le Nazioni unite nel conflitto, come andava fatto nove anni fa. Senza una significativa presenza di caschi blu nel paese difficilmente ci saranno progressi nel rispetto degli impegni presi e della legalità internazionale.