Cronaca vera di un incontro segreto tra Nenni e Mussolini

Anatole France lo riceve sulla porta di villa Said in papalina e veste da camera. È così carico di gloria che è insensibile all’aroma d’incenso. Non così al profumo di donna. Le parigine più seducenti lo attorniano, pendono dalle sue labbra, aspettano un segno, almeno un bon mot su cui spettegolare nei salotti borghesi. Lui si dilunga nei baciamano e le fa arrossire con una battuta. Allontana il suo funerale giocando al gatto col topo. Nonostante l’età, non ha mai dismesso la vena polemica. Lo tiene in vita. Dopo aver cannoneggiato la Terza Repubblica difendendo Dreyfus, si è invaghito della Rivoluzione d’ottobre e per giunta ha vinto il Nobel.

Se vuoi incontrare la Parigi che conta, banchieri e comunisti avvolti nel fumo del medesimo sigaro, devi vagare nelle stanze del papa laico. Discutono della Russia da dilettanti, tutti meno Rolland, il Nobel del secondo anno di guerra. Si sente rivivere al calore delle sue intuizioni. Al contrario del plenipotenziario di Lenin in FranciaCachin “baffi a manubrio” – indaga senza tacerle le ombre del mito, gli errori, le ingiustizie, le crudeltà. È un idealista, Cachin un bolscevico fatto e sputato. Spesso allargano il cerchio per farlo sedere. Confidano nel cognac perché si avventuri sulle vicende italiane. Sono incuriositi dal duce. La vita al risveglio. Così gli apparve Parigi dalla redazione del “Populaire”. Vi arrivò da corrispondente dell’“Avanti!” nel marzo 1921 e vi scoprì, lui che era stato un rivoluzionario di provincia, quanto grande fosse la seduzione della cultura. Quando mai un figlio di contadini gettato da piccolo nella desolazione di un orfanotrofio, a Faenza, avrebbe fantasticato di polemizzare con due maestri della letteratura mondiale?
Ha scritto molto, letto di più. A Parigi ha imparato che quel che si legge è più importante di ciò che si scrive. Marx, Lenin, Zola, anche Verga ora che è morto. Un tirocinio magnifico interrotto dagli incontri con le organizzazioni operaie e dai frequenti litigi con l’ala comunista.

Fino a ieri, l’8 di gennaio. Il giorno in cui l’ha rivisto. Troppo pallido il sole di Cannes per illuminare la svolta. I Grandi si rinserrano in un palazzotto con l’orizzonte negli occhi, litigano per un’intera settimana perdutamente, si lasciano senza aver sciolto i nodi delle riparazioni di guerra e del ritorno in società della Russia dei soviet. Tutto rinviato alla Conferenza di Genova. Non è stato il caso a farli incontrare. La mascella quadrata l’avrebbe riconosciuta tra mille. L’appuntamento è venuto da sé, senza forzare, dopo un cenno fugace in sala stampa, uno a intervistare il presidente del Consiglio francese, Briand, l’altro sulle tracce della delegazione britannica. Finalmente è scesa la notte. Le tenebre si avvitano alle palme della Croisette, li nascondono a occhi indiscreti. Il duce a passeggio con un sovversivo è una notizia da prima pagina, come se Lenin sbucciasse una mela allo zar. Discutono in romagnolo, la lingua madre. Il dialetto riduce lo spazio tra il basco e il cappello a cilindro, li riconduce al passato comune: Pietro legge quel che il secondino gli passa, Benito si commuove alle risa dei bambini che giocano nel giardino confinante col carcere. La storia si è sedimentata nell’anima, pulsa, l’epica della giovinezza li lega ma ormai non è più né sangue né cuore. Semmai è un ricordo da mettere in naftalina, il maglione pesante di chi vive in riviera. Se hai sofferto nello stesso buco lo stesso dolore e marcisci in quel buco per un’idea, solo il tradimento recide il cordone. Ora le passioni confliggono, alle onde che sbattono sul litorale consegnano due visioni del mondo. Non c’è un testimone.
«Il tuo individualismo è sporco di sangue. Ignoro cosa diventerai, ma ricordo cos’eri. Ai giudici dicesti: “Se ci assolve- te ci fate piacere, se ci condannate ci fate onore”. Preferirono farci onore. E ora, chi sei?»
«E l’Italia, dimmelo tu, che cos’è? Chi l’avrebbe salvata dai bolscevichi, dal burrone in cui si stava affacciando? Chi se non io?»

Si mitragliano con parole di fuoco, violente, definitive. Nenni non teme la differenza di età, non è affatto a disagio di fronte al capo politico. Ha tenuto in braccio sua figlia Edda, era di casa, lo ha perfino seguito nell’esperienza sansepolcrista. Benito ha rinnegato la causa, non solo, lo ha ingannato, è uno spergiuro. Mussolini è Caino.
«Di una cosa sono sicuro. Tutto quello che farai sarà bollato dal ferro rovente dell’arbitrio. Hai smarrito il sentimento più grande, Benito. Dov’è la giustizia che predicavi in Romagna?» La voce si altera. «Quando ho parlato di pace mi si è riso in faccia. Ho dovuto accettare la guerra.» «Falla finita! La pace che offri ai tuoi vecchi compagni comporta la rinuncia ai loro ideali. Loro non sono come te.»

Mussolini ha bisogno di tempo per allentare la morsa. Si slaccia il cappotto, sbottona il colletto della camicia, arranca, la strada si è incollata alle scarpe.
«Pietro, ma guardati intorno. Blateri di proletariato, di pace, ma dove vivi? Il secolo della democrazia è morto, l’entusiasmo per i miti sociali finito. La guerra ha liquidato il secolo delle maggioranze, della quantità.»
Nenni non molla, lo inchioda ai fatti. Basta con la filosofia.
«Ti sei venduto alla borghesia. Alle tue condizioni gli agrari patteggiano sì, e volentieri.»
«Li odio come te, gli agrari.»
«Ti pagano, tengono in vita le squadre fasciste. Rispondimi, perdio, rispondimi! Come fai a dimenticare i morti ammazzati? Sei cresciuto tra quei contadini…»
L’altro è alle corde. Si accende un toscano conficcando gli occhi nell’acqua. È solo un momento. Una rasoiata di luce sul volto scavato. Il tormento è scomparso.
«Torbidi di frontiera. Il mio regno è la politica, dovresti saperlo.»
«Come no… c’è qualcuno tra quei contadini, tra gli operai bastonati dalle camicie nere che è diventato socialista grazie a te. Eri tu il capo, e hai dimenticato anche questo. A Imola ti chiamavano duce.»

Mussolini si para di faccia all’amico, le mani sui fianchi. Sulla costa balugina il lume fioco di una barca di pescatori. Anche la luna si è spenta dietro un girovagare di nubi. Ora è pronto. La verità è una dura lezione di realismo politico.
Lo scambio è serrato sotto il lampione. I nottambuli ancora non sanno che nello sciabordio del mare di Cannes si legge il futuro.
«Bene, sono io il responsabile. La guerra civile è stata una tragica necessità. Lo Stato era andato a puttane. So che i morti pesano, eccome se pesano. Spesso penso al passato con malinconia…»
«… eri il loro idolo…»
«… Madonnimpestata, e alle centinaia di migliaia di morti della guerra tu invece non pensi? Anche questi vanno difesi. C’eri anche tu tra i volontari in caserma.»
«Già, ma io non ho mai tradito.»
Una risata di gola. Si fronteggiano senza sfiorarsi. Il guscio di una testuggine e occhi al confine con la tristezza.
«Nella vita non c’è posto per il sentimentalismo. Non siamo come le femmine. Tutte le passioni prima o poi si spengono.»
«No, tu le passioni le hai vendute a quelli che volevi impiccare con le loro budella.»
«Al di sopra delle classi c’è la nazione. Io servo l’Italia, Pietro, voi siete schiavi di Mosca» si incattivisce, toccato nel vivo.
«Io sto dalla parte degli ultimi. Finalmente sono arrivato nel posto da cui tu sei fuggito.»

Un gabbiano si posa su una panchina, sbatte le ali in un colpo di vento. Pietro inarca la schiena, si aggiusta gli occhiali. Le parole gli muoiono in gola. È troppo tardi per coricarsi. Dormire, e perché? Attardarsi sul campo di battaglia, e perché? La Croisette ha svelato l’enigma, non c’è più nulla da dire. Chi ha abdicato all’uso della ragione faccia la strada in compagnia dei suoi sensi di colpa, sedotto com’è dalla voracità di un insaziabile io. Chi ha tradito tradirà ancora se ha imboccato la via che ingrassa un’ambizione sfrenata. Attraversa il viale e digerisce l’addio sulla spiaggia. Sul viso una carezza di sale. Non si vedranno mai più.