Per la prima volta nella storia, il prossimo 14 e 15 ottobre la sede del Consiglio superiore della magistratura sarà aperta al pubblico.
Il “Palazzo dei Marescialli” di piazza indipendenza a Roma, infatti, è stato inserito nel calendario delle aperture del Fai, Fondo ambiente italiano, per le giornate d’autunno.
Si potrà visitare la scalinata utilizzata dall’ex pm di Mani pulite Piercamillo Davigo per parlare con il presidente della Commissione antimafia Nicola Morra dopo aver lasciato il proprio cellulare nel suo ufficio per timore di essere intercettato dai colleghi, oppure la stanza dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara dove i magistrati, al termini di una lunga anticamera, venivano ricevuti in udienza per ottenere una nomina o un incarico. Oppure ancora, la sala del Plenum dove il togato Lucio Aschettino smarrì il cellulare e qualcuno, mai identificato, lo prese ed inviò un messaggio galeotto alla moglie.

Ironia a parte, l’iniziativa è certamente meritoria ma dovrebbe essere accompagnata poi dalla trasparenza sui lavori consiliari.
Ad esempio, da anni si discute di dare pubblicità alle attività delle Commissioni, ad iniziare da quella per gli incarichi direttivi, per allontanare il sospetto che essi siano condizionati da logiche spartitorie fra le correnti. Il tema della pubblicità dei lavori viene tirato fuori ad ogni campagna elettorale per i componenti togati del Csm ma poi, puntualmente, finisce nel dimenticatoio.
Eppure un organo di rilevanza costituzionale come il Csm ha il dovere di rendere conto a tutti del come, del quando e del perché delle proprie decisioni.
La completezza e la qualità della comunicazione sono essenziali per il concreto esercizio delle funzioni di un’Istituzione.
Anche l’altissimo tasso di tecnicismo con cui sono redatti gli atti consultabili ne rende quasi impossibile la comprensione.
Chi ha tempo per leggere le proposte per le nomine per un incarico direttivo che raggiungono ormai le centinaia di pagine? Spesso neppure gli stessi consiglieri.

Perché, sempre in ottica di trasparenza, non pubblicare poi i curricula dei magistrati che aspirano ad un incarico?
Va dato atto comunque che dei passi in avanti sono stati fatti.
Nel 2017, ad esempio, dopo ben un quarto di secolo, si decise di desecretare gli atti che riguardavano i fascicoli relativi a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Atti che non erano coperti dal segreto di Stato e tantomeno dal segreto investigativo ma sui quali il Csm aveva steso l’oblio.
Proprio per riavvicinare la magistratura ai cittadini è importate che quante più informazioni siano a disposizione delle collettività.
Un capitolo a parte lo meritano le sentenze disciplinari dei magistrati che sono coperte dal massimo riserbo. Non solo i nomi sono oscurati, ma anche qualsiasi elemento che possa permettere di identificare la toga ‘indisciplinata’.
Le archiviazioni disciplinari disposte dal procuratore generale della Cassazione sono, invece, addirittura nascoste anche ai vertici di via Arenula.
Nessuno è in grado di verificarle. Teoricamente potrebbe appunto farlo il ministro della Giustizia, titolare anch’egli dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati insieme al procuratore generale della Cassazione.

Gli ultimi dati disponibili raccontano che su circa 5000 segnalazioni disciplinari verso le toghe trasmesse a via Arenula, che ha quindi facoltà di chiedere copia degli atti e promuovere direttamente l’azione disciplinare, gli ultimi due Guardasigilli hanno chiesto la copia degli atti in soli 10 casi, ed hanno promosso l’azione disciplinare in 4 casi.
Praticamente hanno avvallato di ‘default’ l’imponente attività di archiviazione posta in essere dal procuratore generale della Cassazione.
“Chiederò l’accesso agli atti per verificare perchè di questa incredibile inerzia addirittura nell’avere la copia degli atti”, disse a tal riguardo Enrico Costa, deputato e responsabile giustizia di Azione. “Senza esaminare gli atti è lecito chiedersi – aggiunge – su cosa si possa basare l’acquiescenza verso una simile massa di archiviazioni.
Ma la beffa principale riguarda proprio il cittadino che ha presentato l’esposto e che non è messo nelle condizioni di sapere che fine abbia fatto.
Certamente non il massimo per quella che deve essere la “casa di vetro” della giustizia.