Editoriali
Da Ernesto Rossi a Domenico Arcuri, quando il tecnico era un grande politico
È il 28 giugno del 1930. Quel giorno il leader socialista Pietro Nenni, esule in Francia, riprende, sul quotidiano del Partito l’Avanti!, il motto del giornalista e scrittore Charles Maurras: “Politique d’abord”, “la politica innanzitutto”; pazienza se Maurras è un nazionalista reazionario. Con quell’espressione Nenni orienta il metodo dei socialisti che ormai operano in clandestinità o in esilio: «Il partito procederà secondo il metodo (politique d’abord) che consiste nel non avere pregiudiziali tattiche e nel riconoscere che la tattica è questione di momento e di circostanze. Un partito che sa quel che vuole, e che quel che vuole lo vuole sul serio, non sarà mai imbarazzato sui mezzi da impiegare».
Un concetto che Nenni riprende nel 1944; sempre su l’Avanti! del 13 luglio scrive: «Politique d’abord! Senza una politica generale antifascista nell’esercito, nella polizia, nella amministrazione non si fa e non si vince la guerra, questa guerra». E ancora, due anni dopo, in Una battaglia vinta, teorizza: «Si è molto deriso in alcuni circoli politici il nostro slogan: politique d’abord, la politica prima di tutto (…) però vi è un momento in cui ogni problema sociale diventa un problema politico, in cui ogni problema economico è un problema di potere».
Da allora l’espressione entra nel gergo comune della politica; un po’ come “l’intendance suivra”, che il generale De Gaulle amava ripetere quando voleva dire che le ragioni dell’economia seguono quelle della politica.
Il primato della politica, dunque: buona regola; come tale ci sono delle eccezioni, deroghe. Oggi, con il dominio dei mercati e della tecnologia digitale, queste espressioni suonano un po’ fasulle: è la politica che “segue”… È nei momenti di emergenza, che massimamente occorre competenza e “sapere”. O quando si devono assumere decisioni gravose, impopolari, e non se ne vuole pagare lo scotto. Allora si invocano i “tecnici”, esperti, i “capaci”… A loro si affida il lavoro “sporco”.
C’è “tecnico” e “tecnico”, tuttavia. Fin troppo facile, riferirsi a personaggi del presente. Un esempio, luminoso, di come il “tecnico” non sempre deve suscitare una “naturale” diffidenza, è costituito da Ernesto Rossi; giornalista, economista, antifascista e anticomunista insieme, radicale. Con Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni, autore del famoso “Manifesto di Ventotene”, e tra i principali promotori del Federalismo europeo. Anima di quella cultura liberal-radicale-socialista, per anni relegato in una sorta di limbo; ancora oggi fa parte di quella che può essere definita una sparuta minoranza. Rossi incarna la figura dell’intellettuale “dentro” i contrasti della società, per capirne le ragioni. Aderisce e milita al Partito D’Azione e al Partito Radicale. Lavora, subito dopo la Grande Guerra, presso l’Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia; esperienza che gli consente di conoscere la situazione di grande arretratezza del Sud del paese; e si impegna sia per aiutare i migranti italiani a partire verso terre che possono dar loro un futuro, sia per il miglioramento del sistema scolastico.
Ha anche una diretta esperienza amministrativa. Finita la guerra, il governo ha il problema di liquidare i beni e i materiali bellici confiscati al nemico, o abbandonati dagli eserciti alleati (milioni e milioni di allora, sui cui industriali rapaci e di nessuno scrupolo hanno messo sopra gli occhi, e vorrebbero metterci le mani). Si costituisce l’Arar (Azienda rilievo alienazione residuati) e qui Rossi si rivela eccellente manager pubblico. Un “tecnico” a cui il presidente del Consiglio di allora, Ferruccio Parri, e il suo successore Alcide De Gasperi, hanno l’intelligenza politica di lasciar mano libera; se ne fidano ciecamente. L’Arar diventa così uno dei pochissimi casi in cui beni pubblici sono “liquidati” avendo cura di tutelare il pubblico bene: nessuna speculazione, tangente, corruzione; Rossi di suo pugno redige relazioni esemplari per chiarezza espositiva, leggibili e comprensibili da chiunque, perfino da chi scrive.
Applica le sue convinzioni maturate in anni di operoso studio. È convinto che «l’economia di mercato dà risultati ottimi o pessimi a seconda dell’ordinamento giuridico… Non basta che il legislatore stabilisca l’oggetto e i limiti del diritto di proprietà… Occorre nazionalizzare i servizi pubblici che risultano troppo pericolosi in mano ai privati… Occorre redistribuire… i costi della dinamica economica». Il suo “fare” costituisce un grande esempio di onestà, competenza e rigore, e mette a frutto le esperienze di quando militava nel gruppo fiorentino del “Non mollare”, straordinario sodalizio di coscienze libere: Gaetano Salvemini, Carlo e Nello Rosselli, Tommaso Ramorino, Nello Traquandi. Se si studiano i suoi articoli si rimane abbagliati per lo stile cristallino, il rigore e la minuzia dell’informazione fornita; per l’acume e l’originalità delle conclusioni… Un italiano di un’altra Italia.
Il titolo di un convegno di trenta e passa anni fa a Pallanza, nel carcere che sotto il fascismo lo “ospita” spiega bene Ernesto Rossi: «il grande accusatore degli abusi e dei privilegi di regime, nonché della politica parolaia delle opposizioni». Nel 1957 è protagonista di un memorabile “scontro” radiofonico con il presidente di Confindustria di allora Angelo Costa: un “pescecane” che tuttavia da quel confronto esce scornato. Rossi a brutto muso dice quello che pochi si limitano a bisbigliare: «Non mi sono mai preoccupato che gli industriali guadagnassero troppo. Mi sono preoccupato che rubassero troppo. E mettendo in luce questa consuetudine di alcuni di loro, ho sempre creduto di scrivere in difesa del bene comune».
Un italiano così, liberale e socialista, radicale e libertario, anticlericale e anticomunista, “figlio” di Salvemini e di Antonio De Viti De Marco, non poteva che essere ostracizzato; in vita e in morte. Parlando di sé Rossi dice: «Per i conservatori sono un rivoluzionario; per i rivoluzionari sono un conservatore». Penso che Rossi, pur tra le non poche amarezze, alla fine si sia anche un po’ divertito, e perfino, forse, compiaciuto per la situazione in cui si è venuto a trovare. La situazione di D’Alambert, raccontata con invidia da Voltaire: «Riesce a essere contro i gesuiti e contro i domenicani insieme». Essere contro i gesuiti e contro i domenicani significa dover pagare prezzi molto alti. Rossi quei prezzi li ha pagati, come li deve pagare chiunque si comporta come lui; e non piega la schiena.
Questo il “tecnico” Rossi; di cui tutto aveva capito Marco Pannella. In una lettera del 24 luglio 1963 gli scrive: «…Per me, lei lo sa, nessuno è più politico di lei. E meno politicante… Non creda, perché gli amici l’hanno convinto di questo, che davvero la “politica” richieda compromessi e calcoli mortificanti per le idee. Anzi. Coloro che sostengono questo, cercano, uniti al di là delle loro differenze, di giustificare le loro rinunce, rassegnazioni e invecchiamenti (non anagrafici, ma morali)….»
Un grande “tecnico”, il più politico di tutti. Lascia una grande lezione: se si vuole, si può.
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