Lettere sul carcere a Sbarre di Zucchero
Da ex detenuto al ’41Bus’ che porta i familiari ai colloqui in carcere, la storia di Bruno: “Così ho trasformato un fallimento in una vittoria”

Bruno Palamara ha 30 anni, ha vissuto l’esperienza del carcere ed è proprio lì che ha deciso di cambiare vita e di fare qualcosa di concretamente utile. Ha pensato ai vari problemi che devono affrontare le persone detenute e le loro famiglie e uno di questi è il riuscire a raggiungere fisicamente i carceri per fare i colloqui. Spesso le zone dove sono ubicati gli Istituti sono in zone dislocate o mal collegate con i mezzi pubblici e questo costituisce un grosso problema per le famiglie che spesso arrivano anche da molto lontano, fuori regione, e che già affrontano lunghi viaggi. Bruno in carcere ha studiato tanto marketing, imprenditoria ed economia ed è riuscito a mettere su la sua impresa dal nome geniale: 41Bus, il servizio di trasporto verso gli istituti penitenziari. E lo slogan è ancora più arguto: “Andare in carcere non è mai stato così facile”. Si tratta di un servizio di navette per le case di reclusione di Opera e Voghera. I punti di partenza sono la stazione di Milano Centrale e l’aeroporto di Milano Malpensa (Terminal 1). Un servizio che semplifica non poco la vita dei familiari dei detenuti che già soffrono tanto e almeno nel trasporto possono essere facilitati. Non solo, Bruno ha messo su una serie di iniziative a supporto dei familiari dei detenuti. Il lungo abbraccio di sua figlia quando è uscito dal carcere gli ha fatto capire quanto per i familiari dei detenuti sia dura la vita, bisognava fare qualcosa di costruttivo e lui l’ha fatto. Bruno ha deciso di raccontare la sua storia di riscatto in una lettera a Sbarre di Zucchero. Ne riportiamo qui di seguito il testo.
Vengo dalla provincia di Milano da una famiglia come tante altre, la così detta classe media mio padre e calabrese mia madre tedesca. Da parte di mio padre una famiglia molto numerosa (da buon meridionale) mia madre in realtà è più calabrese che tedesca (e venuta in Italia con mio padre a 20 anni). Mi ritengo molto fortunato in quanto ho passato un infanzia invidiabile e indimenticabile grazie proprio alla famiglia numerosa, ho passato estati indimenticabili insieme i miei cuginetti e questo mi ha insegnato molto..il valore della famiglia è la semplicità. Sono stato un ragazzo che è voluto crescere troppo in fretta a 17 anni ho abbandonato la scuola è ho fatto qualche lavoretto saltuario (pizzerie, elettricista, muratore).
Niente che mi appassionava veramente. Questa fretta e l’immaturità mi hanno fatto fare scelte sbagliate. A 20 anni mi sposo con la mia allora fidanzata (approsito di fretta, lei aveva 18 anni), ci conoscevamo da quando lei ne aveva 13 e io 15. Dopo qualche tempo arriva la mia prima figlia. Eravamo solo ragazzi ma sentivo molto la responsabilità di padre e aveva paura di non essere all’altezza. Questo mi ha portato ad accentuare di più quelle scelte sbagliate. La mia vita correva e andava di fretta a 23 anni ho avuto la mia seconda figlia. Dopo qualche mese mi arrestarono, in flagranza di reato (droga). Mi portarono a Busto Arsizio dove passai le prime notti in isolamento (perché nelle sezioni non c’era posto). Mi mantenevo forte anzi forse ero curioso anche di salire in sezione per vedere come
era realmente la sezione di un carcere. Dopo qualche giorno fui mandato alla prima sezione del carcere di Busto Arsizio dove mi misero in cella con un ragazzo africano stringemmo una buona amicizia. Mal grado la mia curiosità iniziale mi resi subito conto che il carcere era molto meno “avventuroso” di quanto in realtà pensassi. Alle 18 eravamo già con il pigiama e le pantofole alle 17 si cenava. Rendendomi conto della realtà iniziai a farmi le prime domande: ho corso così tanto per arrivare dove? Quella “pacifica quiete” come la chiamerebbe Goerge Cleason nel famoso libro L’uomo più ricco di babilonia, il mio libro preferito, mi aveva disarmato. Tutto si può pensare di un carcere tranne che sia un posto tranquillo, per chi non lo conosce. Ma nonostante questo continuavo non mi ero scomposto più di tanto.
Passai 2 settimane senza vedere mia moglie e I miei figli. Fin quando un giorno non mi chiamarono al colloquio, non appena li vidi entrare qualcosa mi toccò dentro. In un secondo mi resi conto del mio fallimento. Guarda dove ho trascinato i miei bambini e mia moglie pensai. Come poteva essere che non mi ero reso conto prima di che direzione avevo preso? Pensavo di vincere in realtà stavo perdendo. Mi complicavo la vita per cosa? Correvo così veloce per cosa? Per trascinare mia moglie e i miei figli in un carcere è lasciandoli soli a combattere li fuori con tutte le complicazioni che la vita porta. E per essere alle 6 di sera già in pigiama? Qualcosa non era andato ormai mi era evidente. Dopo 6 mesi mi fecero il processo e mi diedero gli arresti domiciliari, ma non durarono tanto. Dopo 1 settimana che ero di nuovo a casa mi suonarono il citofono alle 4:30 del mattino con in mano una nuova ordinanza per dei fatti precedenti al mio primo arresto. Questa volta mi portarono a Monza. Come era possibile che mi avessero arrestato di nuovo dopo che io avevo capito i miei sbagli, mi domandai. Ricordo che non riuscivo a credere a quello che era nuovamente successo. Era estate ero nella celle di transito della sezione di Monza, 2 ore d’aria al giorno per chi voleva farsela. L’area delle sezione di transito di Monza erano 4 cubicoli dove in ogni cubicolo che misurava 3 metri per 2 stavano dalle 8 alle 10 persone sotto un sole “leone”.
Non potrò mai dimenticare i detenuti delle altre sezione che lanciavano fornelli per cucinare e beni di prima necessità a me ed a altri miei compagni di sezione. Dopo 2 settimane di transito mi portarono in sezione ma dopo un paio di mesi mi chiamarono e mi dissero che insieme ai detenuti comuni non potevo più starci per via di un articolo che mi fu contestato. Per questo motivo mi misero in isolamento e dopo una settimana mi portarono a Voghera in alta sicurezza. In realtà poi fui assolto in primo grado per quell’ articolo. Al contrario delle mie aspettative trovai un atteggiamento del personale della polizia penitenziaria più umano, quello che poi scoprì essere professionalità e competenza. A Voghera ho passato la maggior parte della mia detenzione, 3 anni circa. Ho conosciuto tante persone e molte realtà anche inaspettate. Dopo qualche tempo mi iniziai ad interrogare su come passava il tempo e feci un grossa riflessione su come vivevo furi da “libero”, ormai quasi un anno e mezzo prima. Chi non perde mai la libertà credo non la sappi neanche apprezzare a pieno.

Vedete, affrontare certe situazioni non è facile, anche solo il fatto dell’attesa di poter sapere tra quanto tempo si può riprendere in mano la propria vita è snervante e molto complicato. In Italia i tempi dei processi sono molto lunghi. Alla fine o si accetta quell’impotenza di non essere padroni di sapere quando si può riconquistare la propria vita o si respinge e si soffre la situazione. Io accettai di non avere il controllo della mia vita e di non sapere quando poterla nuovamente vivere. Ma non solo, dovevo reagire in qualche modo: fumavo 2 pacchetti di sigarette al giorno fuori, dentro le buttai da un giorno all’altro mi iniziai ad allenare con intensità, ma non bastava. Mi domandai cosa poteva aiutarmi per non tornare lì dentro di nuovo, cosa mi poteva aiutare a non perdere più il controllo sulla mia vita? Mi detti una risposta: studiare! Ma cosa? Economia, marketing, imprenditoria crescita personale e così via. Iniziai a dire a mia moglie di portarmi dei libri che parlassero di questi temi. Studiavo 2/3 ore al giorno mi allennavo altrettante ore. E come dimenticare le pulizie della cella. La soddisfazione di vedere tutto pulito e in ordine mi faceva sentire apposto con me stesso. Forse mi prenderete per pazzo ma in galera ho imparato ad apprezzare le piccole cose, le cose più semplici. La mattina mi piaceva molto prepararmi il caffè e le fette biscottate e nel frattempo sentire la radio. Sognavo sempre la libertà anche ad occhi aperti. Non sognavo soldi, vestiti firmati o donne. Sognavo gite in famiglia, la sensazione di una corsetta in un bosco, invece di correre in cerchio in un’aerea di un carcere.
Mi resi conto che probabilmente ciò che stavo rincorrendo fuori per me non era veramente importante. Imparai a conoscermi davvero mi guardai dentro. Un giorno mi chiamarano in matricola per notificarmi un’altra ordinanza. In verità non mi importava più molto ormai avevo fatto quel salto nel vuoto e avevo trovato la forza di accettare che la mia vita fosse in mano a qualcuno, forse in mano al destino. Prima si accetta il dolore prima si finisce di soffrire. E così continuavo le mie giornate in carcere, tra allenamenti e studi. Leggendo così tanti libri di imprenditoria e marketing mi resi conti che tutti finivano con un unico messaggio: individua un problema trova una soluzione e così crei valore. Li per li dissi a me stesso “in Galera e pieno di problemi”, però non sapevo bene ancora come risolverli. Dopo qualche giorno leggendo un libro (che poi diventerà il mio libro preferito, L’uomo più ricco di Babilonia), si è accesa una lampadina. Il problema da risolvere era quello dei colloqui familiari e della difficoltà di raggiungere gli istituti penitenziari per i familiari. Quel libro mi cambiò proprio la vita, un giorno lessi delle frasi che ancora oggi sono scolpite dentro di me che mi toccarono nel profondo. In un attimo quel libro mi fece capire che in realtà avevo trasformato un fallimento personale in una vittoria, avevo sfruttato un problema trasformandolo in un vantaggio per me per come avevo affrontato la sofferenza. Non mi ero abbattuto non avevo permesso ai problemi di sopraffarmi ma anzi li avevo usati per creare per costruire qualcosa dentro di me.
Dissi a me stesso che non mi importava più del carcere e di quanto tempo ancora dovessi starci (ancora avevo un processo per droga in corso). L’importante è che avevo imparato tanto da quei problemi. Mi resi conto che mi avevano dato una marcia in più invece di darmi una marcia in meno. Per ironia della sorte o per un segno del destino in quel preciso momento sentii il rumore delle chiavi della agente (quel giorno sezione era quasi vuota per la giornata dove si giocava a calcetto, io ero rimasto a leggere). Sapevo che stava venendo davanti alla mia cella, avevo una strana sensazione, mi misi le scarpe e lo aspettai in piedi davanti al blindo. Arrivò davanti alla mia cella e mi disse di andare in matricola, sapevo che mi stavano dando il foglio di scarcerazione già prima di arrivare in matricola. Arrivai nell’ufficio dove mi dettero il foglio e da lì a poche settimane mi scarcerarono.
Prima promisi a me stesso di provare a realizzare quello che poi sarebbe diventato 41bus.it il servizio di supporto dei familiari dei detenuti che facilita il viaggio verso il carcere per i colloqui familiari e non solo. Quando uscì fu una gioia non potrò mai dimenticare l’abbraccio di mia figlia maggiore che mi strinse alle sue braccia per 10 minuti senza dire una parola. Con quell’abbraccio capì realmente quanto gli ero mancato, e purtroppo non me ne ero reso conto fino a quel momento. Mantenni fede alla promessa che mi feci in galera, contattai tramite internet l’agenzia che poi si è occupata dello studio di 41 bus (Isola di Comunicazione). In un secondo momento ho coinvolto il mio avvocato che non appena gli presentai il progetto capì subito le potenzialità, a sua volta ha coinvolto numerose associazioni, istituzioni, direttori di carceri e business man. E così abbiamo creato quello che oggi è 41bus.it, “andare in carcere non è mai stato così facile”. Nelle prossime settimane partirà l’area “terapeutica del sito” dedicata in particolar modo alle donne e mamme dei figli di detenuti, tutto in modo del tutto gratuito per i familiari.
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