Da Pasolini ai talk show, la rabbia ha perso il suo senso rivoluzionario

Negli anni Cinquanta del secolo scorso, a partire da Ricorda con rabbia di Osborne, ci fu la moda (non solo inglese) dei “giovani arrabbiati”: ribellione generazionale, gioventù bruciate, teddy boys. Giovani che rivendicavano il diritto di scandalizzare i vecchi, qualche volta perfino di spaventarli. Nel 1960 Pasolini, in una poesia intitolata La rabbia, accusava se stesso di «arido furore» e definiva la rabbia «un rottame della passione» – dove per “passione” si doveva intendere soprattutto passione politica. Il comunismo era in crisi, il desiderio di cambiare il mondo si accartocciava, appunto, in sterile furia. La rabbia fu anche il titolo di uno strano mezzo film pasoliniano del 1962, tutto e solo di montaggio su materiale di repertorio (con un commento in versi) sulla storia del dopoguerra – la rabbia, argomentava Pasolini, spetta ai poeti tenerla viva contro la normalizzazione portata dal benessere e dalla pace.

L’altro mezzo film era firmato da Guareschi, contro cui Pasolini si scagliò al punto da voler ritirare la propria firma, accusando Guareschi stesso di nutrire una specie opposta di rabbia, quella di «chi vede il mondo cambiare, cioè sfuggirgli»: la rabbia insomma del conservatore che vuole alzare barriere contro il mutamento. Poi ci fu il Sessantotto, col tentativo di trasformare la rabbia in rivoluzione (guardando alla Cina), e la capacità di indirizzare la ribellione giovanile verso una seria e vittoriosa lotta contro l’autoritarismo dei Padri. Lotta finita invece, nel giro di pochissimo, col Potere che individuò nei giovani una promettente nuova risorsa del consumismo, fino ad arrivare (con gli anni di piombo) alla terribile equazione di rivoluzione e terrorismo.

Poi vennero epoche affluenti, col Pil che galoppava e le riforme sociali fatte a debito; la rabbia si limitava agli “autunni caldi” del sindacato e a qualche sprazzo di neo-neo-avanguardismo in letteratura (ve li ricordate, i “cannibali”?). Ora la rabbia sembra essere ritornata, in una fase di stagnazione economica (o peggio); ora che la normalità è minacciata da un esibito stato di eterna emergenza, enfatizzata dai media. Chiunque sui social si proclami “incazzato” ottiene immediatamente una vagonata di like. La destra, per dir così, “guareschiana”, ha tutto lo spazio per dispiegare la propria rabbia contro ciò che attenta alla tradizione, che sia la presenza per strada dei migranti, o l’espressione genitore uno/due, o l’eliminazione del crocifisso dalle scuole.

La sinistra è molto più a disagio con la rabbia, anzi le Sardine esortano a essere gentili; ci sono solo alcuni comizi particolarmente accesi, e la “legittima rabbia” degli operai in presidio perché la loro fabbrica ha chiuso o minaccia di chiudere. Il collegamento in diretta con gli operai che protestano è tristemente diventato un sottogenere del talk politico televisivo, coi conduttori compiti e coinvolti che chiamano operai e operaie col nome di battesimo esaltandone la “compostezza” e “dignità”. L’impronunciabilità della rivoluzione costringe a giri di valzer sulla necessità che il “sistema cambi radicalmente”, che “la finanza faccia un passo indietro”, che “l’etica prevalga sull’egoismo”, fino alla rassicurazione finale “noi non vi abbandoneremo”. Così si tratta la rabbia in tivù, tra un blocco pubblicitario e l’altro.

La rabbia si scatena piuttosto, folkloristica, in altri luoghi del palinsesto televisivo: per esempio nei reality, dove ogni tanto qualcuno sbrocca; ma sono rabbie caratteriali, vendette o frustrazioni, per personaggi di tutte le età – inquinate sempre dal sospetto della recita, dell’isteria a uso di telecamere. Nei reality vige il divieto assoluto di parlare di politica, i compartimenti devono restare stagni. Negli ultimi tempi il vero unico segno di rabbia giovanile autentica, commovente e non mediatizzabile, l’ho letto nelle labbra strette e negli occhi feroci di Greta Thunberg mentre diceva ai governanti del mondo «come osate?». Non era provocazione, era dolore puro, ai limiti della patologia; e infatti ci stiamo tutti sforzando di dimenticarlo, perché quel viso contratto di una sedicenne chiedeva davvero la (impossibile) rivoluzione.


Oggi la letteratura si è riavvicinata alla rabbia: non tanto nella narrativa quanto in alcuni monologhi teatrali (penso a Stefano Massini e al Poiana di Andrea Pennacchi). Ma il genere in cui la rabbia sembra aver assunto il ruolo di ingrediente principale sono i testi della musica trap, declinazione popolare della poesia contemporanea. Nei versi dei trapper italiani c’è molto maledettismo di imitazione, ripreso dal gangsta rap americano; è quello che colpisce i benpensanti, inducendoli a ridicole richieste di censura (o di impensabili palinodie) – ma c’è anche molta rabbia autentica che varrebbe la pena di confrontare con quella di sessant’anni fa. La cosa che colpisce di più è che questa rabbia attuale sembra contenere in sé la previsione del proprio fallimento.

«La mia rabbia non volevo sprecarla così», dice Anastasio in Rosso di rabbia, come se già si vedesse in un abito rosso fiammante sul palco di Sanremo, applaudito dal pubblico in smoking; e infatti aggiunge «non è roba da poco/ strillare mentre questi mi fanno le foto». Che la loro rabbia sia destinata a finire in glamour, sembra esser dato per scontato dai più sensibili e più bravi di loro, ed è forse questo che conferisce un tono di malinconia e depressione disincantata ai testi di Achille Lauro o di Rancore (che scrive «la musica è libera quanto un’ora d’aria in carcere»). Spesso è su una base di amore disperato che si accampano gli eccessi di machismo o menefreghismo, le affermazioni orgogliose di droga e diversità. Il più politico di loro, Massimo Pericolo, brucia in un video la propria scheda elettorale; la percezione acuta dell’ingiustizia sociale lo spinge al rifiuto della politica e della scuola, scrive «andrei a pisciare sulla tomba di chi mi ha messo al mondo» con la (in)sofferenza di Rimbaud che scriveva “merde à Dieu” sulle panchine di Parigi. A questi ragazzi, per sottrarsi allo spettacolo, non restano che l’anarchia e l’autodistruzione.