Forse non era possibile ricorrere a nessun altro espediente per evitare che la crisi tra Italia e Francia si avvitasse sino a raggiungere il punto di non ritorno ma la formula adottata dai presidenti Mattarella e Macron non è affatto insignificante o effimera. Il capo del governo italiano è stato bypassato dal presidente della Repubblica che ha svolto un vero e proprio ruolo di supplenza arrogando a sé, almeno sul piano della diplomazia, prerogative proprie del governo, del premier e del ministro degli Esteri. È un passo ulteriore su un sentiero imboccato molti decenni fa, prima con passi piccolissimi poi sempre più decisamente, sino a creare una sorta di presidenzialismo non dichiarato ma effettivo.

Quando sono cambiate le cose? Quando è iniziato a mutare strutturalmente pur se mai formalmente il ruolo del Colle? Forse con Sandro Pertini, capo dello Stato dal luglio 1978 al giugno 1985, il presidente socialista ed ex partigiano che non la mandava a dire, esprimeva critiche corrosive nei confronti della politica dei governi, come nel caso del terremoto in Irpinia del 1980. Prima di lui gli inquilini del Quirinale non erano stati, come da leggenda, privi di ogni potere. In compenso avevano fatto il possibile per sembrarlo, mantenendo il profilo basso, sforzandosi di apparire anonimi. Pertini rovesciò quella logica. Fu presenzialista e mattatore sino a incarnare agli occhi degli italiani un “contropotere” che fustigava il malcostume del potere politico. Pertini, il primo presidente protagonista, fu eletto pochi mesi dopo quell’uccisione di Moro che segnò l’inizio della fine per la prima Repubblica ed è difficile pensare che tra l’avvio del declino dei partiti e l’ascesa del Quirinale negli equilibri istituzionali non ci sia una correlazione diretta.

Dopo Pertini, Francesco Cossiga per cinque anni sembrò tornare all’abituale invisibilità propria dei presidenti del passato: grigio e anonimo, quasi burocratico. Poi qualcosa cambiò e Cossiga impugnò il piccone. Se Pertini il socialista aveva sferzato, Cossiga il democristiano demolì e smantellò a colpi di denunce fragorose e gesti spettacolari. Sfruttò da maestro la visibilità che l’alto ruolo gli garantiva per delegittimare dalle fondamenta un sistema che riteneva ormai appassito. I fatti dimostrarono che non era lontano dal vero. Oscar Luigi Scalfaro, democristiano di prima ma non primissima fila, arrivò fortunosamente al Colle nel maggio 1992, imposto quasi dal trauma nazionale della strage di Capaci. Fu eletto in fretta e furia dopo un lungo stallo anche perché la sua intera biografia sembrava garantire che avrebbe rimesso le cose a posto, riportando alla “normalità” il ruolo del capo dello Stato. Probabilmente era quel che davvero intendeva fare. Le circostanze e la forza delle cose decisero diversamente. Tangentopoli, il referendum del ‘93 sulla legge elettorale che diede alla prima Repubblica l’estrema unzione, l’improvvisa e travolgente entrata in scena di Silvio Berlusconi gli assegnarono un protagonismo diretto del quale nessun presidente prima di lui aveva goduto. Pertini e Cossiga avevano rivoluzionato l’immagine del primo cittadino: Scalfaro trasformò la sostanza.

La finanziaria del 1992, forse la più importante nella storia della Repubblica, fu letteralmente scritta da lui e dal premier Giuliano Amato senza neppure consultare gli ormai agonizzanti partiti. La manovra che rovesciò il governo Berlusconi dopo appena 9 mesi dalla folgorante vittoria nelle elezioni del marzo 1994 non sarebbe stata possibile senza l’attiva complicità del presidente che si impegnò con Bossi a non sciogliere le Camere se la Lega avesse tolto la fiducia al governo, lo incontrò, dietro sua richiesta, nelle stesse stanze del Quirinale, convinse e quasi costrinse Berlusconi ad accettare un nuovo premier, Lamberto Dini, dopo la caduta del suo governo in dicembre. Dopo Scalfaro il ruolo del Quirinale non sarebbe comunque potuto tornare quello di prima, salvo che in presenza di un sistema dei partiti forte, solido, basato sulla legittimazione reciproca dei diversi schieramenti. La realtà era opposta e dopo la parentesi Ciampi, l’unico presidente vecchio stile degli ultimi decenni, Giorgio Napolitano portò il processo iniziato da Scalfaro alle estreme conseguenze. Il primo presidente ex comunista aveva già di suo una concezione estremamente interventista del ruolo istituzionale che iniziò a ricoprire nel maggio 2006. Il quadro nazionale e internazionale, la delegittimazione del governo Berlusconi dopo la nuova vittoria del 2008, la grande recessione iniziata nello stesso anno, la crisi del debito del 2011, rafforzarono le sue tendenze. Rispetto a Scalfaro, Napolitano poteva poi contare su un controllo di fatto assoluto sul partito da cui proveniva, i Ds diventati nel 2008 Pd.

Napolitano è stato un monarca costituzionale più che un presidente repubblicano. Ha imposto una guerra, quella contro la Libia, ha cambiato un governo, quello di Berlusconi sostituito con il tecnico Monti nel 2011, ha fatto muro contro ogni ipotesi di scioglimento anticipato delle camere, convincendo nel 2010 Fini a posticipare di un mese il voto sulla sua mozione di sfiducia contro Berlusconi e dando così allo stesso Cavaliere il tempo di acquisire i voti necessari per resistere, ha condizionato a fondo le alleanze del Pd, è stato il primo presidente rieletto nella storia italiana e in cambio della sua disponibilità a non lasciare il Colle al termine del mandato, nel 2013, ha imposto la nascita di un governo sostenuto sia dal Pd che da Forza Italia. Re Giorgio.

Sergio Mattarella, animato da un’idea da un’idea opposta del ruolo istituzionale del Quirinale, avrebbe probabilmente voluto tornare a uno stile più sobrio, molto meno interventista. Non c’è riuscito e non poteva riuscirsi in una democrazia parlamentare che è ormai tale solo di nome, con un sistema dei partiti devastato e in ginocchio, nel cuore di una conclamata crisi di sistema. Napolitano era stato re e presidente volendolo essere, Mattarella lo è senza volerlo ma anche senza poterlo evitare. La rielezione di Napolitano, comunque rimasto in carica solo per due anni nel secondo mandato, poteva ancora essere un’eccezione. Quella di Mattarella nel 2022 ha il sapore di una nuova norma. In un quadro simile non ha molto senso chiedersi se la supplenza esercitata da Mattarella per risolvere una crisi minacciosa con la Francia è stata o no una forzatura. Converrebbe prendere atto di una trasformazione che si è operata nel tempo persino contro le intenzioni di quelli che la hanno veicolata, come nei casi di Scalfaro o dello stesso Mattarella, e decidersi a farne un assetto istituzionale ordinato, invece di restare in quella che è oggi una terra di nessuno.