Siamo passati, in meno di 100 anni, dalla generazione Stakanov a una generazione “stanca”? La questione è seria, e centinaia di esperti ne discutono in eventi e convegni, la cui sintesi è: “La nuova generazione non ha voglia di lavorare!” Stranamente, se a parlare di occupazione femminile fossero tutti uomini, verrebbe giù “l’Ín-ter-net”. Invece, se un panel di over 50 parla di giovani, è normale.

Nulla di nuovo. George Orwell, nel 1945, scriveva: «Ogni generazione immagina di essere più intelligente di quella che l’ha preceduta e più saggia di quella successiva. Questa è un’illusione e bisognerebbe riconoscerla.» Più recentemente, il sociologo David Finkelhor ha coniato il termine “Juvenoia” (che non fa riferimento all’impostazione di gioco di Thiago Motta) per descrivere la tendenza storica degli adulti a esagerare i problemi della gioventù moderna, percependoli come peggiori rispetto al passato. La colpa di queste “degenerazioni” è stata, nell’ordine, di Elvis Presley, del rock ‘n’ roll, della televisione, degli hippie, dei videogiochi, del rap, di Internet, delle chat room, della trap e degli influencer.

In un articolo su Time di 10 anni fa, il Prof. Chris Ferguson parla di effetto “Goldilocks”: ogni generazione crede che la precedente fosse troppo rigida e la successiva troppo selvaggia. Ognuna pensa di essere cresciuto nella “cultura giusta”. La conclusione dell’articolo è illuminante: «Gli adolescenti e i giovani adulti rimangono un gruppo di persone che può essere denigrato pubblicamente senza quasi nessuna condanna. La retorica anti-giovani parla di ‘protezione’ dei nostri giovani, ma è attraversata da una vena di disgusto. Finché non saremo onesti al riguardo, continuerà a produrre leggende metropolitane e scienza-spazzatura». Oggi, in quasi tutti i contesti di lavoro, convivono quattro generazioni: i Boomers (over 60), la Gen X (tra 44 e 59 anni), i Millennials (28-43) e la Gen Z (under 27).

Per i Boomers, cresciuti con il mito del “duro lavoro” come base della stabilità economica e sociale, il lavoro significa dedizione e fedeltà all’azienda. Per la Gen X, che ha vissuto la recessione degli anni ’80 e il cambiamento dei modelli lavorativi, il lavoro è un premio in sé: difficile da trovare e sempre precario. Sono segnati, sulla pelle e nell’animo, dalla parola “flessibilità”. Per i Millennials, il lavoro è realizzazione: trovare un senso più grande del semplice lavorare, in armonia con valori personali. E la Gen Z? Sono cresciuti ascoltando i racconti dei genitori su: capi incompetenti, orari di lavoro inaccettabili, richieste deliranti e mancanza di riconoscimento. Narrazioni di genitori spesso assenti o con la testa altrove per impegni di lavoro. Tra un racconto e l’altro, si sono detti: “Io non farò questa fine.” Vogliamo dargli torto?

Noi li abbiamo chiamati NEET e “bamboccioni”, ma siamo le generazioni del workaholism (la dipendenza da lavoro), del karoshi (morte per eccesso di lavoro) e del burnout (esaurimento da stress). Per fortuna, gli Z non sanno chi sia Stakanov, un’illusione di regime per spingere all’iperproduzione. Non-eroe di un’altra epoca, morto solo e alcolizzato. Gli abbiamo lasciato un mondo inquinato e sfruttato. Gli ab

biamo insegnato il concetto di sostenibilità, e ora ci stupiamo se applicano la sostenibilità anche al lavoro, rifiutando un impiego che non li rispetti e che non consente un work-life balance?
A differenza delle generazioni “stakanoviste” precedenti, non canteranno a squarciagola “e nun ce piace de lavorà!”, semplicemente, metteranno in pratica: non ci piace questo modo di lavorare. Lo diranno chiaramente, nelle aziende. Pretenderanno un modello nuovo, umano e rispettoso. Non avranno alcun rispetto per quelle follie organizzative che noi, per generazioni, abbiamo chiamato “lavoro”, accettandole. Benvenuta in azienda, Gen Z! Ci vediamo tra qualche anno in un convegno a parlare male della Gen Alpha.