L'altro 11 settembre
Dagli occhiali di Allende a quelli di Concita De Gregorio
C’è più calore politico nell’immagine spettrale degli occhiali, infranti, di Salvador Allende, rivisti nei giorni scorsi nei resoconti della memoria giornalistica civile di un remoto colpo di Stato avvenuto in Cile l’11 settembre 1973. C’è appunto più sostanza lì che non nei desiderata della attuale “conversazione” di sinistra.
Rinvenuti nel Palazzo della Moneda dopo il bombardamento, appartengono adesso al Museo Histórico Nacional. Custoditi a lungo in una modesta scatola di latta di cioccolatini da chi volle salvarli, resistono infine «a temperatura y humedad controladas, para que sigan siendo parte del patrimonio de Chile». E, ripeto, giungono allo sguardo più esemplari dei feticci e dei must della sinistra odierna, nostra dirimpettaia mediatica, televisiva; non sto certo parlando del “pataccone” al polso del campioncino ventunenne candidato da Calenda a Roma, estraneo, quest’ultimo, perfino a ogni nozione “migliorista”, infine cazziato, dopo la sua ripetuta ostentazione da baretto di Ponte Milvio, dallo stesso padrino politico. Il raffronto andrebbe fatto semmai con le montature post-elisabettiane, post-fiorucciane che Concita De Gregorio, cara alla bella gente del Palazzo mediatico d’osservanza post-veltroniana, indossa come accessorio della propria progressiva, invidiabile, rendita, trincea di posizione professionale.
Sia detto anche rischiando di suggerire sofismi da puntiglio metafisico, ma l’esistenza dell’emozione e di un sentire politico, non certo ideologico mortuario, si misura anche nelle suggestioni. Quanto a sentimento, gli oggetti, le cose, perfino in apparenza men che sovrastrutturali, le stesse che indossiamo, sono talvolta segni di identificazione subculturale. Hanno il merito di restituire l’essenza d’ogni mondo, l’altrove, e poco importa se ciò avviene in modo fantasmatico. Anche l’Utopia, in assenza della quale non esiste possibilità di cammino, è immateriale. Come la bandiera che inizialmente aveva, semanticamente parlando, significato segnaletico di allarme, presenza di pirati, salvo poi divenire, sulle barricate della Comune di Parigi, di cui si festeggiano quest’anno i 150 anni, il punto di raccolta del Quarto Stato. Ritrovando la miseria simbolica del presente, assodato che in certi casi non ci sono problemi poiché non esistono soluzioni, resta l’irrinunciabilità del sogno, dell’ideale spinterogeno della passione che consente la scintilla del mutamento.
Tra le immagini “politiche” di queste ultime settimane, la più evidente per calore, ripeto, giungeva al nostro diorama delle cronache, esattamente dal magazzino dei reperti tragici delle sconfitte: gli occhiali di Salvador Allende, spezzati, insanguinati, infranti, così come dimorano adesso nella sua Santiago del Cile. Obietterete: parli di un remoto settembre del 1973, accenni a un’avventura politica con illusioni perfino rivoluzionarie storicamente fallimentare, conclusa con un golpe, complice il governo degli Stati Uniti d’America, condotto da un militare ottuso, traditore, criminale, e ancora, come dimostrato dai tribunali, corrotto, tal Pinochet. Tuttavia l’immagine di quegli occhiali, appartenuti al presidente socialista di Unidad Popular, sia pure dall’oltretomba, restituiscono emozione.
Obietterete ancora: serve davvero il simbolico quando la sinistra odierna sembra in verità del tutto svanita, fantasma residuale, talvolta detestabile per insignificanza o protervia dei suoi stessi protagonisti comunque garantiti? Altrettanto doveroso però in certi casi fare ritorno al valore della poesia, a Pier Paolo Pasolini, viso altrettanto sfigurato dalla storia, quando accenna «alla lunga serie di notti in cui marcia senza bandiere la vita», versi perfetti per restituire il gelo e il vuoto del presente, e nessuno pensi ora si tratti di nostalgia da “comunisti”, più semplicemente di bagaglio di minima coscienza. La dinamo, l’autoclave dell’emozione, appunto. Dal lato più buio della strada, le lenti spezzate di Allende, nel belvedere dirimpetto l’ostentata montatura di Concita De Gregorio, creatura apprezzata dal contesto attuale “di sinistra”, dove le virgolette appaiono d’obbligo, la stessa che, nelle settimane scorse, ha visto le proprie anime belle identificarsi con la foto edificante del giovane console, benedetto, per prossimità familiare, da Michele Serra tra i “non sdraiati”, mentre sollevava un bambino per metterlo in salvo dal carnaio aeroportuale di Kabul.
Una sinistra cui è cara la propria presentabilità, bon ton, zuppe di farro, fragranze di lavanda d’autore, “Eau de Moi”, anche questa un’opportunità offerta da “Serra & Fonseca”; un galateo che tuttavia svanisce davanti al minimo ghigno delle destre che, quanto a simbolico, per quanto osceno e qualunquista, giunge imbattibile al consenso plebiscitario populista. Un esempio? Giorgia Meloni intenta a puntualizzare, nel momento stesso della tragedia afghana, il rifiuto d’ogni corridoio umanitario. Incredibilmente, nella sua immediatezza mortuaria e irrealtà della storia e delle sconfitte trascorse, la “reliquia” di Allende, appariva più convincente e reale degli occhiali performanti d’autore dell’invidiabile, apprezzata opinionista dal pubblico de La7, perfino quando ammutolisce – “specchio, specchio delle mie brame…” – il collega di conduzione, dimezzato David Parenzo.
Paradossalmente, gli occhiali del morto emanano più calore, sebbene sia luce che giunge da una stella spenta da oltre quarant’anni. Il resto è chiacchiericcio insignificante sulle ambizioni di un Giuseppe Conte, sulle vacanze di Maria Elena Boschi, non meno orgogliosa della propria cintura segnata dalla lettera H, iniziale del glamour più ordinario, o su quell’altro dell’orologio, l’ennesimo oggetto. A conferma che segnalare il valore simbolico delle cose è tutt’altro che fumo da invidiosi, meglio, da “rosiconi”, come sempre ripetono gli analfabeti d’ogni sponda politica.
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