La caccia non è finita col voto di fiducia ottenuto da Conte senza raggiungere al Senato la maggioranza assoluta. È, al contrario, appena cominciata. Qualcosa i fedelissimi del premier, attivi come mai prima nelle scorse settimane, hanno raggranellato, ma poca roba. Comunque li si chiami, “responsabili”, “costruttori”, “volenterosi”, devono crescere di numero, almeno a palazzo Madama. Dunque sotto con la caccia al transfuga che del resto è ormai una tradizione: si ripete più o meno senza sosta dal 1994 e vanta precedenti illustri. Si avvalsero a man bassa del Trasformismo, cioè dell’acquisto di voti mediante trattative dirette con i singoli parlamentari, sia Agostino Depretis, presidente del Consiglio dal 1876 al 1887, sia il successore Francesco Crispi.

All’epoca, però, i parlamentari non rispondevano a nessun partito: solo alla loro clientela. La pratica era perciò almeno formalmente del tutto legittima e legittimata. Le conseguenze in termine di corruzione clientelismo non furono però meno devastanti. I famosi àscari di Giovanni Giolitti non erano in realtà assimilabili agli attuali frontalieri. Si trattava di parlamentari meridionali fatti eleggere da Giolitti e che a Giolitti giuravano fedeltà. Il loro compito era votare a comando senza impicciarsi di cosa fosse scritto nelle leggi che sostenevano: per lo più provvedimenti che punivano il loro Meridione a vantaggio del Nord. In fondo i veri àscari erano eritrei che combattevano dalla parte degli italiani.

Nella prima Repubblica, segnata dalla presenza fortissima dei partiti, il trasformismo fu fenomeno praticamente inesistente. Spuntò fuori di nuovo con gli esordi della seconda, dopo le elezioni del marzo 1994 vinte dal Polo di Silvio Berlusconi. Vinte sì, ma senza maggioranza al Senato. Per farcela il cavalier trionfante aveva bisogno di qualche cambio di casacca. Toccò a quattro senatori del Partito popolare, guidati da un navigato ex Dc, Luigi Grillo. Uscirono dall’aula e permisero a Berlusconi di conquistare, con 159 voti, la maggioranza relativa pur se non quella assoluta. Il suo nacque come governo di minoranza, proprio come capita oggi a Peppi Conte. Situazione scomoda ma transitoria. L’astensione era solo segno di buona volontà in una trattativa avviata ma non conclusa. Approdò felicemente a piena intesa poco dopo, garantendo a Berlusconi la maggioranza piena e a Grillo il sottosegretariato alla presidenza del Consiglio.

Lo scontro in aula “alla luce del sole” voluto da Conte ricorda per alcuni versi quello scelto da Prodi nel 1998, quando Rifondazione gli tolse la fiducia. Paragone superficiale. Il Professore non cercò e non chiese alcun sostegno a parlamentari dell’altra sponda. Puntò sulla spaccatura di Rifondazione, cioè sulla difesa della stessa maggioranza e perse per un voto. I voti di frontiera arrivarono in compenso pochi giorni dopo per far nascere il governo D’Alema. Li portava in dote Clemente Mastella, eletto con la destra e provenivano dalla scissione del Ccd che lo stesso Clemente aveva fondato con Casini. Padre nobile dell’operazione era Francesco Cossiga ex presidente della Repubblica. I transfughi furono perciò bollati come “gli straccioni di Cossiga”. L’ex capo dello Stato, uomo colto, replicò che casomai erano gli straccioni di Valmy, dalla battaglia vinta dall’armata francese repubblicana, “gli straccioni”, contro forze soverchianti austro-prussiane nel 1994.

Le suggestioni dell’Udr di Cossiga erano elevate, epocali: voleva coronare l’abbattimento del Muro con un grande alleanza tra l’ex Pci e i neodemocristiani. Mastella era più terragno: mirava ai posti. Il Picconatore se ne accorse e mollò la nave dopo un anno. Mastella non fece una piega. Si tenne le truppe, confermò l’appoggio al secondo governo (di minoranza) D’Alema. Si limitò ad aggiungere una e alla sigla. Da Udr a Udeur.

Quando nel 2006 Prodi vinse di strettissima misura le elezioni Berlusconi partì con la campagna acquisti, senza perdere tempo con fantasticherie politiche. Sborsò un paio di milioncini e portò a casa il voto di Sergio De Gregorio, che in più si prese anche la presidenza della commissione Difesa, strappandola alla candidata di maggioranza Lidia Menapace. A far cadere quel governo, dopo appena 20 mesi, fu però un habituè del cambio di bandiera: l’immancabile Clemente, che nella compagine di Prodi figurava anche come ministro della Giustizia e se ne tornò a destra con un la sedia all’europarlamento garantita.

Un altro paio di acquisti, quello dei responsabili per antonomasia Razzi e Scilipoti, origini dipietriste, salvarono Berlusconi nel 2010: gli permisero di reggere l’offensiva di Fini al Senato e di andare avanti con un governo peraltro di minoranza. Più folto il salto del fossato che consentì a Enrico Letta, che guidava un governo sostenuto anche da Berlusconi, di sostenere la sfiducia decisa dallo stesso Berlusconi. Il delfino del cavaliere, Angelino Alfano, capitanò una scissione tanto corposa in Parlamento quanto invisibile nel Paese. Fondò il Nuovo centrodestra. Diventò ministro degli Interni, posticino eminente confermato quando Renzi subentrò a Letta. Passò agli Esteri con il governo Gentiloni. Sparì alla prima occasione utile: le elezioni del 2018.