Dal carcere da innocente alla pizzeria: la storia di Mario Tirozzi, il fioraio scambiato per narcos dal pm promosso

Ventidue mesi in carcere da innocente. Due anni di processo, fra primo e secondo grado. L’assoluzione. E poi ancora cinque anni per ottenere quello che la legge prevede, e cioè il diritto a un risarcimento per chi patisce un’ingiusta detenzione. In prima battuta quel diritto i giudici glielo negano addirittura, con una motivazione che si fa fatica a credere: «Non ha collaborato». Cioè, ti arrestano perché hanno intercettato qualche conversazione e ne hanno interpretato a proprio modo il senso, ti tengono in cella per due anni, nel processo viene fuori che la prova del reato che ti contestano non c’è e loro, gli inquirenti, i magistrati, la giustizia insomma, che fanno? Sostengono che la responsabilità è tua perché non hai collaborato.  Eppure, tu all’interrogatorio di garanzia hai risposto alle domande del gip provando a spiegare ogni cosa, andando anche contro il consiglio dell’avvocato che ti invitava ad avvalerti della facoltà di non rispondere (che pure è un diritto legittimo) in attesa di leggere gli atti.

Ci sono voluti cinque anni di istanze e battaglie giudiziarie per arrivare al provvedimento di due giorni fa con cui i giudici della Corte di Appello capitolina, dopo un rinvio dalla Cassazione, hanno ammesso l’errore della giustizia e riconosciuto l’ingiusta detenzione. Ora, se tutto andrà bene, visti i tempi biblici dei processi, il risarcimento del danno arriverà tra un anno o due. Ma non sarà mai sufficiente a ripagare il povero protagonista di questa storia di tutti i danni subìti dal 2015, da quando tutto è iniziato. La storia è quella di Mario Tirozzi, imprenditore di Capua, oggi trentottenne. Due giorni fa, proprio mentre gli veniva comunicato che la sua richiesta di essere ammesso al risarcimento come vittima di ingiusta detenzione era stata finalmente accolta, ha inaugurato la pizzeria “Apprendista Pizzaiolo” a San Nicola la Strada, in provincia di Caserta. «Questo progetto, realizzato con alcuni amici, è la mia rivalsa. Lo devo alla mia capacità di resilienza e a chi mi è sempre stato accanto in questi anni difficili, alla mia famiglia da cui ho ereditato lo spirito di sacrificio e la passione per il lavoro», racconta Tirozzi provando a lasciarsi alle spalle il calvario a cui lo ha costretto quella che spesso impropriamente viene chiamata giustizia.

Un calvario cominciato il 28 settembre 2015. Alle tre di notte i carabinieri bussano alla casa dove Mario Tirozzi vive con gli anziani genitori. Gli notificano un’ordinanza di custodia cautelare per traffico internazionale di stupefacenti. Per lui, che con la famiglia ha sempre lavorato nel settore del commercio dei fiori, è uno choc. Ma prova a resistere. Viene portato a Santa Maria Capua Vetere, il carcere che sorge a pochi metri da una discarica e per questo è invaso da un odore nauseabondo. Il carcere costruito senza una rete idrica per cui la doccia si fa una volta a settimana e con un filo di acqua color ruggine. «Le condizioni igieniche della cella erano raccapriccianti – ricorda Mario – Ero con due extracomunitari e una persona con problemi di salute mentale che urlava giorno e notte». Come si sopravvive? «Ci vuole tanta forza per non cedere a gesti estremi. Continuamente mi chiedevo cosa ci facessi lì. E per non crollare pensavo alla mia famiglia, alle persone che amo. La carta costituzionale dice che i detenuti andrebbero riabilitati ma da quel che ho visto tutto si fa fuorché riabilitarli». Sei mesi dopo l’arresto, Mario viene portato nel reparto di massima sicurezza. «Dicevano che ero socialmente pericoloso, leggevo sugli atti cose che mai mi sarei immaginato».

I pm di Napoli e poi quelli di Latina (l’inchiesta ha avuto un passaggio di competenze) lo indicavano tra presunti narcos in contatto con l’Olanda. Accuse costruite sull’interpretazione di conversazioni intercettate tra Tirozzi e le segretarie di un’azienda olandese che commerciava fiori. «Nelle telefonate si parlava di spedizioni e soldi e secondo l’accusa io non potevo non sapere la vera destinazione di quei soldi. Da sottolineare che nel processo sono stati poi assolti anche i titolari di questa azienda». In primo grado Tirozzi viene condannato a sette anni di reclusione, in Appello arriva l’assoluzione. Nel frattempo trascorre 653 giorni in carcere e 137 ai domiciliari che i giudici gli concedono, ma in Abruzzo, per accudire il padre malato. «Prima dell’arresto avevo un lavoro bene avviato e stavo per sposarmi. Il matrimonio l’ho dovuto rimandare, il lavoro ho dovuto ricostruirlo da zero». L’azienda nel commercio dei fiori, infatti, negli anni dell’arresto e dei processi ha risentito degli effetti della gogna mediatica. «Dopo essere stato sbattuto in prima pagina come un mostro, i clienti sparirono».

Ora da quel calvario Mario è fuori. «Devo molto all’avvocato Antonio Maio del foro di Roma che mi ha assistito nel processo d’appello dimostrando la mia innocenza. E poi l’altro giorno, finalmente, è stato riconosciuto che la mia detenzione è stata ingiusta». Si fa fatica, però, a dire che Mario ha avuto giustizia. «Credo in alcune persone della giustizia, non nella giustizia. Non è giustizia quella che fa un uso distorto delle intercettazioni, che prima ti arresta e poi cerca le prove. Non riesco nemmeno ad accettare che il pm che mi ha rovinato la vita venga promosso. Se un chirurgo, un avvocato, il dipendente di un’azienda sbaglia, paga. Il magistrato invece no, e non dovrebbe essere così».