L'intervento
Dal Medio Oriente arriva una domanda di cambiamento
Nei giorni del sanguinoso scontro militare tra Israele e Hamas e subito dopo il raggiungimento del cessate il fuoco ho avuto la possibilità di svolgere due missioni nell’area, la prima a Beirut e la seconda ad Amman. In entrambi i Paesi per lungo tempo l’attenzione della comunità internazionale è stata focalizzata sul dramma dei rifugiati: palestinesi prima, iracheni e siriani poi. In Libano oggi si contano oltre un milione e mezzo di siriani, in Giordania circa un milione e trecentomila. Numeri che dovrebbero farci vergognare delle polemiche nostrane “sull’emergenza migratoria”, ancora di più se andiamo a guardare la situazione economica e sociale delle comunità ospitanti. Il primo dato su cui riflettere è questo.
In Libano a una pesante crisi economico-finanziaria che ha portato al default si sono sommati in poco tempo la drammatica esplosione al porto di Beirut dell’agosto scorso, la crisi sanitaria del Covid19 e lo stallo politico che da oltre nove mesi impedisce la formazione di un governo in grado di assumere decisioni e avviare le riforme necessarie e il negoziato con il Fondo Monetario Internazionale. Intanto le condizioni di vita delle persone sono sempre più difficili e il malessere sociale è crescente anche se non si manifesta più nelle piazze. Allo stesso modo in Giordania, dove pure il contesto politico è sicuramente meno complicato, aumentano le aree di fragilità e di sofferenza sociale. Nell’area circostante a Zaatari Camp, ci raccontano gli operatori del Wfp che operano lì, i dati sulla povertà e sull’insicurezza alimentare della popolazione giordana sono molto simili a quelli dei rifugiati siriani del campo.
La cooperazione italiana (e internazionale) non può non tenere conto di questi elementi: per queste ragioni l’Aics, le Organizzazioni della Società Civile, le Agenzie delle Nazioni Unite stanno cercando di lavorare – ad Amman come a Beirut – non più solo “per e con” i rifugiati ma anche “per e con” i gruppi vulnerabili della popolazione locale, per evitare che esplodano nuove contraddizioni e “guerre tra poveri”. È un riorientamento necessario anche perché, a dieci anni di distanza dallo scoppio della guerra, è ancora difficile immaginare una conclusione in tempi brevi della crisi siriana e la possibilità concreta di ritorno di grandi numeri di rifugiati. In altre parole siamo chiamati a riflettere e a lavorare sul nesso umanitario-sviluppo, a domandarci come dare continuità e al tempo stesso far evolvere un intervento della comunità internazionale per la Siria che non può più essere esclusivamente legato all’emergenza.
In questo sforzo di ridefinizione della solidarietà internazionale nella regione – e questo è il secondo tema – dobbiamo saper ascoltare, sia in Libano che in Giordania, le voci della società civile che chiedono maggiore attenzione alle loro istanze, alla richiesta di partecipazione e di cambiamento che, soprattutto tra i giovani e le donne, è molto presente. «La comunità internazionale – ci siamo sentiti dire in Giordania – non può guardare al nostro Paese solo attraverso la lente della stabilità. Noi chiediamo riforme e maggiore giustizia…». Ancora di più la prospettiva delle riforme in Libano viene considerata da diverse componenti della società, che guardano alle prossime elezioni del 2022 come un passaggio essenziale, una condizione indispensabile per scongiurare il rischio di un collasso irrecuperabile del sistema. Infine, last but not least: l’idea che gli Accordi di Abramo potessero portare la pace accantonando la questione palestinese si è dissolta negli undici giorni di violenza che hanno provocato morte e distruzione a Gaza e in Israele.
Al di là dei pronunciamenti dei governi, le opinioni pubbliche dei Paesi arabi e soprattutto di quelli più vicini al conflitto sono state attraversate da forti ondate di protesta. In particolare, mentre in Libano non sono mancati episodi di tensione al confine con Israele, in Giordania il sentimento profondo della popolazione – gran parte di origine palestinese – si è espresso in forme e con toni più accesi che in altre occasioni, anche perché il futuro di Gerusalemme e dei Luoghi Santi ha da sempre un valore simbolico enorme per il Regno Hashemita. Questa è dunque la terza riflessione da trarre.
Il Medio Oriente è percorso da nuovi fermenti, da non sottovalutare. E la questione del popolo palestinese, la richiesta del riconoscimento dei loro diritti è parte dell’identità culturale e politica di ampie fasce di popolazione, soprattutto tra i giovani. La sirena dell’estremismo non è affatto sconfitta, così come non sono sparite le istanze di maggiore apertura e rinnovamento democratico in questa parte del mondo. A distanza di oltre un decennio dalle Primavere Arabe credo sia dovere della comunità internazionale e di noi occidentali non farsi di nuovo trovare impreparati e vedere come il perdurare del conflitto israeliano-palestinese possa saldarsi ad altri elementi di malessere, diventare uno degli ingredienti di nuove ondate di protesta popolare, alimentare le fila del radicalismo.
In questo contesto – e non sembri una conclusione fuori luogo – la presenza delle minoranze cristiane rappresenta un fattore profondamente positivo, espressione di tolleranza, dialogo interreligioso, solidarietà. Dobbiamo fare i conti con un dato preoccupante, la presenza cristiana in Medio Oriente sta diminuendo drasticamente: la violenza di Isis, la guerra in Siria, la devastante crisi economica in Libano hanno spinto molti cristiani a fuggire da quelle terre e a cercare un futuro altrove. Si rischia così di impoverire culturalmente ed economicamente quelle società, di perdere un tratto distintivo di quella regione che per secolo ha visto comunità religiose diverse capaci di convivere pacificamente e di cooperare per il bene di tutti.
Ancora oggi, nelle mutate condizioni, le scuole cattoliche di Amman ospitano decine di migliaia di studenti, in grande maggioranza di religione musulmana. Ancora oggi le parrocchie, gli ospedali, le associazioni cristiane in Medio Oriente riescono ad essere luoghi di solidarietà e di servizio per tutti. Tutto questo giustifica una nostra attenzione speciale alle minoranze cristiane, alle loro iniziative e ai loro progetti, come peraltro voluto dal Parlamento italiano che ha promosso l’istituzione di un fondo al hoc per finanziare progetti mirati alla loro tutela, non come entità separate bensì come parti vitali e solidali nelle comunità in cui vivono e operano.
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