Ci sono almeno due ragioni per sostenere in armi l’Ucraina in guerra. La prima è che il suo governo, democraticamente eletto, lo chiede, e la grande resistenza civile e combattività dei suoi soldati conferma che la richiesta del governo è sostenuta dalla popolazione, nella sua maggioranza. Immaginate se oggi quel sostegno fosse mancato: la bandiera russa sventolerebbe su Kiev e Putin guarderebbe più avanti, e perché non dovrebbe? La Santa e Grande Russia è sempre, qualcuno dice misticamente, sulle sue spalle. La seconda ragione, non meno importante, e forse più, si lega al criterio con il quale si deve interpretare l’aggressione all’Ucraina. Il tema non è veramente entrato nel dibattito che infuria in Italia, se non marginalmente, giacché tutto, da ogni parte, si concentra sugli sviluppi visibili del conflitto, tra i contrasti che conosciamo e che qui è inutile richiamare.

Su di essi è intervenuto anche il Pontefice, il quale fa il suo mestiere, o meglio lo interpreta nella chiave che sappiamo, cosa alla quale, ad esser franco, non darei gran peso.
Ciò che, a parer mio, resta fuori, pressoché ignorato, è che con l’attacco all’Ucraina si è aperta non una guerra locale, ma una lotta globale tra gli antagonismi mondiali che stanno tornando in campo. Si badi: non si intravede una guerra globale, e quindi nucleare, che non c’è e non ci sarà, una guerra dove l’inizio coinciderebbe con la fine, e nessuno può volerla. Ma una lotta di lungo periodo, che sarà carica di eventi e di conflitti, e naturalmente anche di compromessi, su un tema che può essere definito così nella sua dimensione più generale: lotta per il governo della globalizzazione, che si va trasferendo dall’economia e dalla finanza alla politica e alla storia, alle culture e agli orgogli e sussulti di identità. La cosa può sorprendere solo quella vasta opinione che si è formata intorno alla fine della politica, immaginando la sua morte; e soprattutto meraviglia i competenti di finanza globale, secondo i quali ormai politica e storia sono sotterrate -rimangono solo le loro ceneri- dominate dal predominio esclusivo delle potenze indicate. Non è così e non poteva essere così finché esisteranno l’umanità, le nazioni, gli spazi di influenza, le culture che sorreggono l’unità di un popolo, il problema della sicurezza e delle zone di influenza.

Tutte cose che alludono a questioni di egemonia che non possono essere racchiuse nelle dimensioni dell’economia anche largamente intesa, ma fanno parte da sempre del mondo umano della storia, nel confronto-scontro tra civiltà, tema di un autore non per caso oggi dimenticato come Samuel Huntington. E che tanto più rinascono, paradossalmente, quanto più economia e finanza diventano “globali”, in una interdipendenza sempre più stretta, ma anche contrastata. Questo immenso fenomeno, che potrebbe anche invitare alla collaborazione, o perfino a un nuovo cosmopolitismo -per chi mescola ingenuamente l’interdipendenza dei rapporti commerciali con la pace perpetua- ha molti caratteri per spingere a lotte per l’egemonia tra campi culturali e politici diversi e opposti. Per entrare più nel merito della questione, non va mai dimenticato che la globalizzazione della finanza e del commercio è prodotto dell’Occidente, e ha avuto dietro di sé, nelle modalità del suo inizio, società aperte e democratiche. Poi la globalizzazione si è velocemente estesa, e non poteva essere diversamente, a società chiuse ed omogenee, illiberali e dispotiche, che ad essa partecipano, ma con tutto il peso delle tradizioni, delle politiche e delle culture che si portano dietro.

La globalizzazione le ha fatte crescere, si pensi a che cosa è oggi la Cina, ma inasprendo, come lì sta avvenendo, il controllo interno e la repressione dei diritti e facendo crescere la volontà di egemonia non solo sugli spazi che le si aprono intorno, ma su tutte le zone dove può affermare la propria influenza: si pensi all’Africa. Tutto questo può avere anche aspetti positivi e interessanti per lo sviluppo mondiale, ma fa scattare anche i segnali di lotta e di scontro, se si pensa che l’Occidente, che è alla base della globalizzazione, versa in una crisi profonda di identità di cui qui è inutile tracciare i ben noti caratteri, ma che non a caso sono stati richiamati, con tono trionfale, nel comunicato cinese-russo del 4 febbraio, dedicato alla morte del liberalismo, oggi, in generale, dimenticato.

E allora torniamo conclusivamente sulla guerra in Ucraina. L’aggressione russa fa parte di questo scenario, allargamento delle zone di influenza, prima l’Ucraina, una passeggiata, poi si vede… E ancora si può predicare il neutralismo assoluto? Per fortuna l’Occidente ha reagito, con imprevista unità, mutando i caratteri della storia recente, e forse il destino della guerra che appariva segnato. Questo è un aspetto importante degli eventi in corso, che seminano morte e distruzione per responsabilità di una Russia convinta di poter tornare ai fasti di un impero, con la Cina che la guarda con prudente ma chiara comprensione, pensando a un futuro fatto comunque di una relazione speciale con essa. L’Ucraina, con l’appoggio di un Occidente riunito, mostra coraggio e determinazione anche ideale, e questo non è poco come messaggio al mondo che ci circonda, e a quello che ad esso riserva il futuro.

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