Premessa principale. Sono una delle persone meno adatte e del tutto impreparata a difendere Vincenzo De Luca, che a prescindere esercita questo ruolo in solitudine senza bisogno di compari e aiutanti vari. Allo stesso modo, per manifesta incapacità non potrei essere l’avvocato d’ufficio di Michele Emiliano.

Premessa accessoria, questo non è un articolo teso a incensare i due presidenti di regione. Ci mancherebbe, giammai. Al contrario, è il tentativo di dimostrare, partendo dalla scelta lessicale di Carlo Calenda di apostrofare come “sultani meridionali” il duo De Luca & Emiliano in occasione della Marcia della Pace, la presenza di un pregiudizio carsico nei confronti della classe dirigente meridionale, che ci portiamo avanti dagli anni post-unitari. Un pregiudizio sempre pronto a dipingere buona parte della classe politica che vive dal Tevere in giù come una simpatica espressione folkloristica, una sorta di masaniellismo risorgente, per usare una definizione coniata dallo storico Aurelio Musi.

Insomma, senza scomodare Edward C. Banfield e il suo familismo amorale, sembra che al Sud siamo circondati da una folta rappresentanza di amministratori e leader di periferia, che ne se fregano altamente delle leggi, che indossano la bandana per capitanare ribellioni Nimby, che si dilettano nell’esercizio quotidiano dell’ammuina senza costrutto e che riescono ad eccellere, come sostiene nel suo tweet il leader di Azione, solo nelle pratiche clientelari e assistenzialistiche e in un racconto qualunquista della realtà. Una ingiusta condanna antropologica senza appello, alla quale va detto per onestà intellettuale abbiamo fornito in questi decenni ampie conferme, che trova la sua declinazione proprio nell’utilizzo di appellativi che hanno una precisa connotazione anti-democratica.

Nel racconto giornalistico, e di conseguenza in quello politico, il protagonismo dei leader che popolavano le regioni meridionali è stato molto spesso semplificato ricorrendo ai termini quali ras, titolo storicamente attribuito ai signori feudali del regno etiope, satrapo, nome assegnato ai governatori delle provincie persiani, così come potremmo ricordare l’utilizzo a più riprese di podestà, o quello appunto di sultano o quello, diventato deluchiano per antonomasia, di sceriffo. E, con la stagione dei sindaci, inaugurata a partire dall’elezione diretta dei primi cittadini, questo vocabolario ha trovato nuovo vigore e diffusa applicazione.

Il punto è che tutti questi appellativi hanno in comune una connotazione dispotica, autoritaria e personalistica del potere pubblico che in alcuni casi è tale o rischia seriamente di esserlo, ma si porta dietro tutti i vagoni sui quali viaggiano invece amministratori di tutt’altra pasta. Di converso, chi sceglie di farli entrare nel proprio discorso, come ha fatto Calenda, porta in superficie quel pregiudizio raffazzonato che è irrispettoso del lavoro di tanti leader locali e che rischia solo di rafforzare i piccoli sultani, da Nord a Sud.

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Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).