Caro Paolo,
il Decreto Biondi ha segnato un crinale sulla giustizia e in particolare sulla custodia cautelare, lo strumento principe dei pm per stringere alla gola l’indagato fino all’ultimo respiro di confessione e chiamata in correità. Da quei giorni del primo tentativo di riforma sulla giustizia in avanti, e fino a oggi, Forza Italia sarà il partito dei garantisti e dello Stato di diritto. Forse anche per questo il suo leader Silvio Berlusconi ha dovuto pagare un prezzo così alto per il proprio ruolo di imprenditore e di leader politico, ma anche per la propria stessa vita. Se qualcuno, in quel mese di luglio del 1994, pensava che, fuori il dente, cioè ritirato il provvedimento, se ne sarebbe andato anche il dolore, si sbagliava.

Il trionfo di Forza Italia

Perché il dolore è sintomo della malattia, e quella che soffrì da allora e per tutta la sua esistenza Berlusconi, era indotta da maestri accorti e accaniti. Non solo magistrati. Perché le elezioni europee del 10 giugno, con quel trionfo di Forza Italia che aveva aggiunto due milioni di voti a quelli delle politiche di tre mesi prima, avevano lasciato segni e cicatrici su un alleato particolarmente sensibile sui voti al nord, quell’Umberto Bossi che aveva forse sperato che la Lega potesse lucrare anche sulla distruzione politica dei partiti della prima repubblica operata dal pool di Milano. Ma all’appuntamento con l’Europa il confronto tra i due partiti era stato impari: 30,6% a Forza Italia e 6,5% alla Lega. Così, se era pur vero che Berlusconi aveva suggerito a ognuno di noi parlamentari di avvicinare un leghista per farcelo amico e magari portarlo via a Bossi, questi tesseva trame ben più sofisticate e insidiose contro il leader di Forza Italia. Più vecchio stile, da politico professionista, quello che Berlusconi non era e soprattutto detestava. Intelligenza con il nemico. Che al tempo aveva le bandiere dei Popolari, discendenti della Dc, e del Pds, l’erede dello storico partito comunista, e di due leader che si chiamavano Rocco Buttiglione e Massimo D’Alema.

Otto colonne per un’informazione di garanzia

I magistrati e il circo mediatico però si mossero prima. L’agguato partì da Milano e sbarcò a Napoli. Nel capoluogo campano il presidente del consiglio aveva portato a casa un buon successo internazionale con il summit del G7 con Clinton e gli altri capi di Stato, nei primi giorni di luglio, appena prima dello sfortunato decreto sulla giustizia. L’aria autunnale sarà però funesta. Era il 22 novembre. Eravamo di nuovo a Napoli, noi del gruppo giustizia di Forza Italia, e in particolare noi tre che rivestivamo ruoli istituzionali, il ministro Alfredo Biondi, il sottosegretario Memmo Contestabile e io, nella veste di presidente della commissione giustizia della Camera, per la Prima Conferenza Mondiale sulla giustizia, presieduta dal premier Silvio Berlusconi. Eravamo andati la sera al teatro San Carlo e Berlusconi si era complimentato per la mia eleganza. Clima disteso, ma all’alba mi aveva chiamato il mio amico Memmo: “Il Corriere della sera esce a otto colonne con la notizia dell’informazione di garanzia a Silvio”. Il gelo nelle ossa non è un modo di dire, a volte. Per me, che avevo asciugato tante lacrime, nei due anni precedenti, di indagati e anche di parenti di politici che si erano tolti la vita per il disonore di essere sbattuti alla gogna mediatica magari per piccoli contributi ricevuti per il partito, era un film già visto. Proprio per questo capivo che la slavina sarebbe scesa fino a valle. E così è stato.

I tre moschettieri del ribaltone

Il presidente del Consiglio era indagato per corruzione della Guardia di Finanza, reato da cui sarà assolto, ma in seguito, molto in seguito. L’esperienza di quei giorni e di quelli precedenti, punteggiati dagli arresti per tangentopoli, e la totale complicità con i pm del mondo degli imprenditori proprietari dei quotidiani che inneggiavano alle manette, mi portava a essere pessimista. Conoscevo il mondo della Lega e avevo già avuto occasione di assistere alle astuzie di Umberto Bossi, una volta c’era cascato persino Giulio Andreotti; quindi, sapevo che il leader padano non aspettava che l’occasione giusta. Sarà la legge sulle pensioni del ministro Lamberto Dini, contro la quale i sindacati avevano organizzato una grande manifestazione, a fungere da spunto polemico. Ma ormai il dado era tratto, i tre moschettieri del ribaltone avevano preparato il piattino da servire all’intruso di Arcore. Si parlò di incontri in Puglia, terra ben conosciuta dai due marpioni della Prima Repubblica, ma anche, all’atto finale, della cena delle sardine, a casa Bossi, a Roma. L’incontro si era prolungato, la fame si era fatta sentire. In casa c’erano solo pan carré e sardine, con un goccio d’olio la cena padana fu servita. Ma il vero capo del complotto si chiamava Oscar Maria Scalfaro. Presidente della repubblica, ex magistrato.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.