Quanto può gratificare un premio, un riconoscimento quando dopo che si recuperano terreni confiscati alla criminalità, in una terra ferita dalla Camorra, e si impiegano persone ai margini, pregiudicate o affette da disabilità mentale, alla fine ci si sente perfino definiti: “professionisti dell’antimafia”, quanto? Può essere mortificante, come succede a Vitematta, la cooperativa sociale che è appena entrata nella selezione “vini da non perdere” per il 2023 per Vinibuoni d’Italia, guida del Touring Club Italiano,  con il suo Pietra Bianca – Asprinio Igt Terre del Volturno.

Non è il primo riconoscimento per la cooperativa, questa volta però è diverso. E non solo perché Vinibuoni è l’unica guida dedicata a vitigni autoctoni – presenti sul territorio da oltre 300 anni – ma perché questo vino brillante e trasparente, dal riflesso giallo paglierino, le note agrumate e l’acidità e mineralità tipiche dei terreni di origine vulcanica è stato presentato con verve anticonformista, un po’ fuori dagli schemi, con una bottiglia bassa e tozza manco fosse un distillato, come spiega a Il Riformista l’agrotecnico e responsabile di Vitematta Vincenzo Letizia. “E perché vincere un premio una volta può far pensare anche a un caso fortuito. Nel momento in cui invece succede altre volte e ci si conferma vuol dire che l’azienda vuole migliorare, che sta funzionando”.

Funziona dal 2014 la cooperativa, dal 2015 l’inizio dell’attività vitivinicola. Lavora sui terreni confiscati al clan dei Casalesi, nello specifico della famiglia Schiavone, affidati alla Cooperativa Eureka nata nel 2005 che ha creato Vitematta e dato vita al Centro agricoltura sociale Antonio Di Bona, vittima innocente di Camorra. Era il 6 agosto 1992 quando l’agricoltore di Casal di Principe uscì di casa per portare il suo trattore in riparazione. Il suo meccanico era in ferie quindi andò in un’officina di Villa Literno: aspettò prima il titolare che era uscito e aspettava dopo il tempo necessario alla riparazione quando quattro sicari arrivarono per Antonio Diana, il meccanico, freddato sul posto. Nessuno scampo neanche per i testimoni, per Di Bona e per Nicola Palumbo, impiegato dell’officina.

Diana era imparentato con Raffaele Diana, affiliato al clan Schiavone, vittima di una vendetta nel contesto della guerra con il gruppo facente capo alla famiglia Venosa. Di Bona si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. “Dare il suo nome al Centro è stato come intitolarlo alle tante vittime di attività criminali, tra l’altro un agricoltore. Di Di Bona sul territorio ce ne sono tantissimi”. E c’è una ragione in più, anzi due almeno, anche dietro al nome della cooperativa sociale mista: un nome che è già un manifesto.

“‘Vite’ viene dalla vite, dall’alberata aversana che era in via d’estinzione, e ‘matta’ perché lavoriamo con persone ai margini, i cosiddetti irregolari, che per noi sono il motore della nostra attività”. Ex manicomiali, pregiudicati, persone che scontano una pena o che affrontano un percorso di recupero sociale. Alcuni quindi vivono al piano superiore, sopra la cantina della cooperativa, altri arrivano ogni giorno a lavorare. I soggetti con obbligo di dimora svolgono attività in cantina, quelli che non hanno obbligo di restrizioni raggiungono i terreni che sono lontani circa sei o sette chilometri, in un’area circoscritta di territorio tra Casal di Principe, Santa Maria La Fossa e Villa Literno. Ci vengono affidati dall’ASL tramite progetti PTRI, gli diamo un supporto quotidiano e la possibilità di un inserimento lavorativo”.

L’attività era partita in un piccolo appezzamento di terreno fittato dove venivano coltivati ortaggi e verdure. “Abbiamo subito notato che il contatto con la natura e la capacità di adattarsi al ruolo di contadino provocava una reazione propositiva e positiva anche sui farmaci che i nostri ragazzi assumevano. Confrontandoci con i medici, furono loro stessi a modulare le terapie notando che i ragazzi impegnati rispondevano meglio alla terapia farmacologica. Questo ci diede l’input per sviluppare un progetto più ampio. Eureka cominciò con gli alberi da frutto, poi con la vite, infine con la cantina a chiudere il cerchio”.

“Da allora siamo passati a produrre circa diecimila bottiglie fino a diventare una realtà certificata ISO 9001 (certificazione di qualità che garantisce tutto il ciclo produttivo, ndr), con un laboratorio interno che assicura un costante controllo sulla qualità”. L’impianto tipico dell’Alberata aversana maritata al pioppo è una tradizione che risale agli antichi Etruschi. Le viti arrivano a superare dieci metri di altezza e ricoprono come un muro di rami, foglie e grappoli la distanza che separa gli alberi di pioppo l’uno dall’altro. È con una scala di una ventina di metri, detta “o’scalill”, che gli “uomini ragno” dell’Asprinio raggiungono l’uva incastrando il ginocchio tra i pioli per avere le mani libere e raggiungere l’uva. L’Asprinio Pietra Bianca ha ricevuto 4 stelle, il massimo del punteggio, nella selezione del Touring Club.

Un recupero, una valorizzazione non esente da difficoltà, che può essere anche sfiancante in alcuni momenti. “A volte è complicato andare avanti, sembra di ritrovarsi tutti contro. Da una parte riceviamo stima dalla gente, dall’altra pende un pregiudizio: come se non fossimo bravi per quello che facciamo ma perché siamo i ‘professionisti dell’antimafia’ e perché siamo aiutati dalle istituzioni. Al contrario, le istituzioni sono molto minuziose con le cooperative di questo tipo, e giustamente”. Anche se, aggiunge Letizia, non sarebbe sbagliato snellire alcuni iter burocratici.

“Sentirsi dare del professionista dell’anti-mafia può essere mortificante. Abbiamo avuto l’opportunità di gestire questi terreni a costo zero e di impegnare i nostri ragazzi e l’abbiamo presa al volo. Non è stata una strategia definita a tavolino ma una strada per abbattere i costi e perseguire gli obiettivi della cooperativa, nei quali crediamo. Fare meglio è anche una sfida personale per cercare di ottenere il massimo e avere un ritorno, un’auto stima personale”. Cin Cin.

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Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.