Ieri sera ho assistito ad una trasmissione televisiva nella quale parlava un giornalista indipendente in collegamento da Kiev. Lo vedo spesso, parla molto bene l’italiano e deve avere molti legami con il nostro paese. Suo figlio e sua moglie credo di aver capito che siano per fortuna già qui. Lui si collega con il computer, da un corridoio del suo appartamento perché “è meglio non stare vicino alle finestre”. Ieri sera era incazzato nero, oltre che comprensibilmente stanco e impaurito. “Perché non venite? Perché non fate la No Fly Zone? Quanti morti ucraini vi servono, quanti bambini, per decidervi ad aiutarci?”.
A sentirlo, il nostro dibattito sull’invio delle armi deciso dal parlamento, sembra una cosa surreale. Ma invece quelle domande, così crude e così sacrali perché poste da un potenziale condannato a morte in uno dei prossimi bombardamenti, se siamo capaci di vedere e di ascoltare, possono davvero essere straordinariamente utili a noi. Da quegli interrogativi, implacabili e sprezzanti, sbattuti in faccia ai politologi e agli strateghi militari che hanno improvvisamente sostituito i virologi, salta fuori una cosa importante: le armi inviate dai governi europei “come un sol uomo”, altro non sono che una medicina omeopatica per la guerra che stanno subendo decine di milioni di ucraini. Sei in mezzo alla guerra, ti invadono con carri armati e ti bombardano case ed ospedali, e io ti “curo” con una piccola dose della malattia che ti sta portando alla morte. O se vogliamo, visto che siamo ferrati sull’argomento, ti inietto un po’ di virus per vedere se sviluppi da solo gli anticorpi.
Omeopatica o vaccinale che sia però, la terapia prevede che la dose sia piccola, insignificante rispetto a ciò che hai difronte. Le risposte al giornalista, dopo il primo momento di riverente silenzio, sempre le stesse: “non possiamo, sarebbe la terza guerra mondiale”. Quello si dannava, dopo, a dire che per lui era già la terza guerra mondiale, che loro sarebbero morti. Ma niente. Dunque, i governi inviano armi, ma per una guerra che deve essere “per procura”. Inviano armi sapendo che queste ultime forse ritarderanno di qualche giorno lo sporco lavoro degli invasori, con aumento esponenziale di vite umane già ascritte nel registro dei morti da vivi. Unico effetto di quelle armi: escalation sul campo, con la quale se la vedono i civili ucraini, non i militari, e tempo per le burocrazie europee per poter studiare “cosa dire e fare dopo”.
Tempo per dire e fare. Cene all’Eliseo, la fila per telefonare a quel boia di Putin, per la lezione quotidiana sulle colpe di Lenin e i meriti dello Zar, grandi applausi a Zelensky, il massimo leader europeo con la domanda di entrata nell’Unione “in via di approvazione”. Le guerre per procura si fanno così. Anzi, si fanno fare. Lo fanno tutti, in ogni parte del nostro mondo. Nessuno sbarco in Normandia, ha ripetuto Biden già pronto “all’anatra zoppa” di Midterm. Nessun soldato europeo, ha ripetuto Macron. Non siamo in guerra, si è affrettato a dire Di Maio.
Nel frattempo, il vuoto politico e diplomatico, il vuoto di visione che ci conduce ogni volta sul baratro “all’ultimo momento”, della nostra classe dirigente, è colmato da casse di armi, e il suo silenzio disarmante è armato, nel frastuono dei reattori degli Hercules c-130 che fanno la spola con i confini polacchi per consegnarle. Quelle domande, inesorabilmente senza una risposta possibile, rivelano una ipocrisia e un tragico errore: non stiamo difendendo nessuno e non stiamo aiutando nessuno a non morire, inviando armi. E questa è l’ipocrisia che i nostri “migliori” devono scriversi bene sull’elmetto. L’unico vero modo di aiutare una resistenza ucraina che in mille modi sta tentando, e in maniera sacrosanta, di rendere difficile ai terrificanti mostri chiusi al Cremlino l’invasione della loro terra e della loro vita, l’Europa non l’ha ancora capito. Proporre un grande negoziato di pace alla Russia, dove sul tavolo ci siano le visioni sulla sicurezza europea, con lo sguardo rivolto a Est e a Sud, non solo a Ovest. Una conferenza di pace, ai massimi livelli, altro che il tavolino di Lukaschenko in mezzo ai boschi della Bielorussia con Abramovich come mediatore.
Questo dovremmo dire: per gli ucraini, per salvare la vita dei nostri fratelli e sorelle, siamo disposti a discutere di tutto. Perché di guerre non ne vogliamo più. E questo è invece l’errore: pensare ancora alla deterrenza militare, al riarmo, alla riattivazione del ricatto nucleare, come unica forma di convivenza possibile in questo mondo.
Il despota del Cremlino ha una visione, terrificante e rivolta al passato. Noi ci stiamo allineando alla sua. Ma nel terzo millennio, in un mondo così interconnesso che i soldi per le bombe glieli diamo noi, via Gazprom. Nel frattempo ci siamo noi, gli “imbelli” pacifisti, con queste idee folli, così lontane dalla realpolitik degli Stati. Siamo quelli che ogni volta “senza se e senza ma”, ma nelle nostre personalissime vite da oppositori privilegiati, i se e i ma li innaffiamo come un prato all’inglese.
Siamo disposti noi ad assumere la lotta degli altri, come quelli che in Russia finiscono in galera a grappolo? Come i rifugiati in Libia che stanno nei lager finanziati dal governo italiano? Siamo disposti a conservare la nostra radicalità nel fare, oltre che nel dire? La speranza è che lo possiamo essere. Le guerre le fanno loro per procura, le lotte per cambiare questo mondo invece non ammettono deleghe. E dunque, siamo pronti ad una grande “cospirazione del bene”? A resistere, disertare, disobbedire? Siamo pronti ad essere davvero quel contrappeso necessario e fondamentale che disturbi con pratiche concrete e nuovi linguaggi l’ignavia dei nostri governi?