Il ricordo dello scrittore
Dario Bellezza, 25 anni fa moriva il poeta amico di Pasolini
Addio cuori, addio amori sono i versi che corredano la sua tomba nel cimitero dei poeti, l’acattolico di Testaccio, a Roma, giardino all’ombra della Piramide Cestia. È lì che da venticinque anni riposa Dario Bellezza, ucciso dall’Aids, a soli 53 anni, il 31 marzo del 1996. Poeta scoperto da Enzo Siciliano e Alberto Moravia, Dario fu poi ammirato da Pier Paolo Pasolini che nel 1971, in occasione della silloge d’esordio Invettive e licenze (Garzanti), lo acclamò come «il miglior poeta della nuova generazione». Le parole incise sul sepolcro sono tratte dal Proclama sul Fascino (Mondadori) opera uscita postuma nell’aprile del 1996.
«Diceva Dario Bellezza che non avrebbe più scritto versi. Non è stato così» annotava Luciana Sica su Repubblica quaranta giorni prima della scomparsa del poeta. E proprio quell’incipit, diventato poi la sua epigrafe, era di fatto il suo “addio alla vita”. Apprezzato come eccezionale traduttore dell’opera omnia di Arthur Rimbaud, è stato narratore enfatico, a tratti verboso, di una Roma che in quegli anni, a cavallo tra i Settanta e i Novanta, iniziava ad ammalarsi di realtà, perdendo l’innocenza e quel sogno d’eternità. La poesia di Bellezza, in tal senso, può ben sembrare una profezia neo-decadente di quello che la società e il mondo dopo di lui sarebbero diventati. Secondo lo scrittore e poeta Aldo Onorati, testimone tra quelli coi quali Dario condivise le frequentazioni della società letteraria capitolina del secondo Novecento, «la scomparsa di Bellezza ha in effetti segnato la fine di un ciclo».
La morte fu uno dei topoi letterari prediletti sin dalla giovane età da parte dell’autore romano. Nel 1976 con la raccolta di versi dal titolo Morte Segreta (Garzanti) Bellezza vinse il prestigioso Premio Viareggio. «Così, senza sapere mai/ cosa stato sarei più che poeta/ se non m’avesse tanta morte/ dentro occluso e divorato/ da me prendo infernale commiato» scriveva nel componimento manifesto dell’opera. Nel 1972 aveva destato scalpore la pubblicazione del romanzo epistolare a tematica omosessuale Lettere da Sodoma (Garzanti) dal quale secondo Massimo Consoli, tra i fondatori del movimento gay italiano e primo amico di Dario già dalla metà degli anni Sessanta, «il dato che emerge è che la vita è brutta, indegna d’essere vissuta. Devo dire – sottolineava lo studioso – che riprendendo tra le mani questo libro dopo anni emerge ancor di più come lui fosse realmente pessimista di natura. All’epoca c’era l’entusiasmo di vivere insieme e raccontare quelle storie, scherzando e ridendoci sopra».
Massimo Consoli annotava questi ricordi nel 2006, decennale della morte di Bellezza, in un volume “omaggio insolito” intitolato ironicamente Diario di un mostro (Anemone Purpurea) che lo storico aveva iniziato a scrivere proprio in parallelo alla stesura del romanzo bellezziano. «Dario è morto», confidava Consoli. «Subito dopo se ne è parlato perché aveva fatto scandalo la sua malattia e la sua fine ma poi è stato dimenticato. Un passaggio che potremmo definire fatale perché in effetti è accaduto lo stesso anche con autori più celebri. È come se debba esserci un periodo di decantazione, poi l’oblio, quindi il recupero». Nel 2015, infatti, pochi mesi prima del ventennale della scomparsa, è avvenuta la rinascita editoriale del fenomeno Bellezza, grazie a uno splendido Oscar Mondadori Tutte le poesie, raccolta completa dell’opera poetica bellezziana curata da Roberto Deidier.
Tra i principali sostenitori di questo recupero necessario, il critico Antonio Debenedetti il quale in una intervista, riportata sempre nel Diario di un mostro ricordava: «Quando morì, la giornalista Giulia Massari mi disse che Dario ci sarebbe mancato molto e ciò che di più ci sarebbe mancata sarebbe stata la sua voce al telefono». Una voce che Debenedetti ricorda come «particolare, bella, abbastanza pungente, penetrante della quale mi giovavo molto durante le lunghe telefonate che avevano sempre come oggetto la letteratura. Non c’era volta che lui non parlasse di Elsa Morante. Era quasi ossessionato dall’idea di questa grande scrittrice. Probabilmente la amava molto e ne era molto intrigato. Probabilmente Elsa, con quel modo misterioso lo stimolava a superarsi, a essere più bravo di quanto già non fosse».
Il poeta Elio Pecora lo definisce «erede della Morante ma anche di Baudelaire e dell’Ottocento. Nella sua poesia sono presenti anche delle grandi retoriche: parla di bellezza, virtù, colpa, rimorso, tutto in maiuscolo». Un Bellezza che secondo l’amica scrittrice Dacia Maraini è stato un uomo «innocente, perso e povero che faceva parte del mondo degli angeli. Qualche volta si è anche definito angelo e in un certo senso davvero lo è stato». Come nelle ore in cui il suo mentore Pasolini veniva assassinato all’Idroscalo di Ostia e Dario, da Barletta, aveva pronta una cartolina che poi non inviò mai, sorpreso dalla tragedia sopraggiunta. Sarebbe servita a rassicurare l’amico con una frase: «Non tutto è perduto! Qua ancora la gente sorride!». Lontano dalla loro Roma incupita e al sicuro dentro le parole nelle quali i poeti continuano a nascondersi e così a esistere.
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