Dazi, l’accordo tra Trump e la Cina mette all’angolo l’Europa

Donald Trump ha vinto il primo tempo. La pungente politica dell’America First è scesa dal loggione ed è salita sul podio. Per ventidue mesi la Cina e gli Stati Uniti si sono apertamente e reciprocamente fronteggiati e minacciati con una fitta alternanza di colpi, non di cannoni: si sono menati a suon d’innalzamenti di barriere commerciali difensive. Un balletto, una danza che riusciva a incoraggiare o scoraggiare l’andamento delle borse internazionali.  Per mesi Washington e Pechino hanno giocato a chi urlava di più, mentre sotto si consumava un lungo e sottile confronto dall’esito non scontato caratterizzato da tanti strategici rinvii e alcune retromarce. L’oggetto del contendere è facilmente riassumibile: il termometro è la bilancia commerciale. Vale a dire quanta merce (e servizi) vengono esportati dagli Stati Uniti verso la Cina e, viceversa, quanta merce (e servizi) partono dalla Cina per arrivare negli Stati Uniti.

La risposta è retorica: gli Usa importano molta più merce dalla Cina di quella che esce. Il disavanzo commerciale, in quanto tale, ha davanti un segno meno, ed è quello che infastidisce l’amministrazione americana. Teoricamente la differenza in negativo significa una potenziale perdita di posti di lavoro, quindi di ricchezza per tutto il Paese. Il presupposto della politica dell’America First è semplice: ridurre la disoccupazione e creare ricchezza, quindi diminuire drasticamente il disavanzo commerciale. Solamente pochissimi dati per meglio comprendere la portata dell’accordo “Fase uno” firmato a Washington l’altro giorno: nel 2019 il surplus commerciale della Cina con gli Usa è sceso sotto i 300 miliardi di dollari, a 295,8 miliardi. L’anno precedente le cose erano andate diversamente. I dati diffusi dal Dipartimento del Commercio Usa relativi al 2018 rilevavano un disavanzo commerciale di 419 miliardi di dollari, + 11,6 per cento rispetto al 2017.

Insomma, senza perderci nel marasma dei numeri, dei diagrammi e delle statistiche, Donald Trump è riuscito a diminuire il dislivello dei due piatti della bilancia. I cinesi si sono impegnati ad acquistare (importare) nei prossimi due anni dagli Stati Uniti merce (e servizi) per circa 200 miliardi di dollari.  Ma i cinesi cosa ne pensano della firma dello storico accordo? Un editoriale apparso sul Global Times ben riassume il sentimento di Pechino: «Il futuro è imprevedibile, ma è chiaro che il mercato cinese e quello americano e il mercato globale sono tutti favorevoli all’accordo commerciale della fase uno». La conclusione dell’editoriale è prudente, pacato: «Speriamo che l’attuazione della prima fase dell’accordo si svolga senza problemi perché può stimolare le ulteriori consultazioni commerciali dei due Paesi e aiuti a facilitare le relazioni generali Cina-Usa. La storia va avanti ed è utile aiutare a realizzare i progressi».

Nel dettaglio il protocollo prevede che la Cina nei prossimi due anni importi dagli Stati Uniti 50 miliardi di petrolio e gas, 32 miliardi di prodotti agricoli e 80 miliardi di merce proveniente dal settore manifatturiero. Alcuni bisogni tipici del Paese del Dragone sembrano così soddisfatti. Sappiamo che la Cina è un Paese energivoro e la produzione interna non è sufficiente ad alimentarla. Inoltre, è noto come il Paese del Dragone, anche se sta investendo molto nella modernizzazione del comparto agricolo, ha una produzione che non soddisfa i propri consumi. Il problema della produzione agricola è sia demografico che legato alla conformazione del vastissimo territorio che alla scarsissima produttività, solo per quanto riguarda la demografia la Cina vanta circa 1,5 miliardi di cittadini, l’Europa e gli Stati Uniti messi insieme ne contano uno.

Di quanto aumenterà il fabbisogno di merci in Cina nei prossimi due anni? Il rischio è teorico ma se la “Fase uno” sarà pienamente rispettata e l’incremento dei consumi interni della Cina sarà, com’è ipotizzabile, inferiore alla quantità di merce che è obbligata a importare, altri Paesi dovranno diminuire le esportazioni verso la Cina. Più semplicemente se la Cina è già impegnata (obbligata dall’accordo “Fase Uno”) ad acquistare nei prossimi due anni 200 miliardi di dollari di merce dagli Stati Uniti, al netto della crescita interna, dovrà rinunciare ad acquistare la stessa tipologia di merce da altri fornitori.

Semplifichiamo e banalizziamo: se la Cina acquista petrolio dagli Stati Uniti, in una misura quasi corrispondente, calerà le importazioni da un altro paese fornitore. E l’Europa? È forse possibile ipotizzare come gli Stati Uniti in parte riescano a sostituirsi come fornitori all’Europa? Bruxelles conosce bene l’andamento della bilancia commerciale dei Paesi membri vero la Cina: a parte la Germania che esporta un gran numero di autovetture, gli altri Paesi vantano il primato negativo delle importazioni di gran lunga superiori delle esportazioni. Il disavanzo commerciale verso la Cina è grave e noto. Quale politica commerciale può aiutare l’Europa a cercare, così come in questa prima fase hanno ottenuto gli Stati Uniti, a bilanciare i due piatti? In questi ultimi anni la politica commerciale di Donald Trump è stata fortemente criticata e condannata da buona parte dell’intellighenzia economica degli Stati Uniti (e non solo).

È certamente ancora presto per cantare vittoria, ma se la “Fase uno” darà buoni risultati il Presidente può vantare un successo insperato. Presumibilmente anche un successo con riscontri elettorali: gli agricoltori del centro America saranno contenti: gli acquisti della “Fase uno” prevedono 32 miliardi di dollari di prodotti della terra. Del suolo americano. Dal punto di visto scenografico il presidente degli Stati Uniti ha vinto: l’accordo è stato siglato non a Pechino ma negli Stati Uniti, a Washington. Il potente presidente cinese Xi Jinping ha preferito delegare il fidato e meno noto vice Liu He. La reciproca astiosità tra Stati Uniti e Cina calerà? Sul tavolo rimangono ancora molte questioni da risolvere: è molto probabile che la guerra tecnologica continui. Il primo round se l’è aggiudicato Donald Trump, vedremo il seguito. Nel frattempo l’Europa incominci a meditare.