Ddl Femminicidio, Fausto Giunta: “Reati simili non si contrastano con pene più alte. Sull’ergastolo seri dubbi di legittimità costituzionale”

“È evidente che dietro l’introduzione del femminicidio come nuova fattispecie autonoma c’è una scelta propagandistica e populistica, sbandierata come ‘svolta storica’, addirittura ‘epocale’, e mirata invece a compiacere un’opinione pubblica particolarmente sensibile alla fascinazione del diritto penale estremo”. Si apre senza mezzi termini il colloquio con il professor Fausto Giunta, custode tra i massimi del diritto penale liberale. “Il femminicidio in quanto omicidio è già punito oggi con la reclusione da 21 a 24 anni, che può trasformarsi in ergastolo per i rapporti di parentela tra reo e soggetto passivo o se commesso in occasione di alcuni delitti da codice rosso. Non è con il parossistico irrigidimento delle risposte punitive che si prevengono più efficacemente questi tipi di reati”.

Togliere la vita a una persona è il massimo dell’offesa penalistica immaginabile: perché creare un reato ad hoc, a seconda del soggetto che viene ucciso? Se escludiamo l’omicidio del consenziente e quello determinato da pietas (es. il malato terminale ucciso dal congiunto che non sopporta assistere oltre alla sua sofferenza), è velleitario fare gradazioni, se non affidandosi a circostanze aggravanti e attenuanti: per inasprire la pena, quella dei motivi abietti; per mitigarla, quella dei motivi di particolare valore morale e sociale. Come si giustifica, dal punto di vista dei princìpi, la maggiore gravità dell’uccisione di una donna, per i moventi individuati nel ddl, rispetto all’assassinio del magistrato che svolge indagini “scomode” o, rimanendo ai soggetti cd. deboli, a quello del transessuale?

La tua domanda racchiude una pluralità di questioni, molte di rilevanza costituzionale. La novità non sta solamente nella virata a favore dell’ergastolo (pena su cui gravano seri dubbi di legittimità costituzionale). Colpisce anche il drastico ridimensionamento della discrezionalità giudiziale nella fase della commisurazione: vengono ristretti i compassi edittali e i varchi al bilanciamento delle circostanze. Si teme la benevolenza del giudice, come prima della riforma del 1974. Di più: il ddl crea una strettoia presuntiva per l’accesso ai benefici penitenziari, sì da rendere effettiva la pena perpetua e spegnere la spes del ritorno in libertà. La cella dell’ergastolano per femminicidio avrà due serrature, l’una governata dallo Stato, l’altra dalla vittima, in caso di improbabili cedimenti pietistici delle istituzioni. Sotto il profilo costituzionale, l’art. 3 Cost. afferma che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. È lo zoccolo duro del principio di uguaglianza ed è tutto da verificare che sia rispettato dalla penalizzazione del femminicidio come fattispecie con “vittima esclusiva di genere”.

Come conciliare il dettato normativo del neo art. 577 bis con i princìpi di tassatività e determinatezza ex art. 25 Cost.?

Premesso che la chiarezza espositiva del Codice del 1930 è andata ormai perduta da decenni, osservo che sul piano della tecnica normativa l’art. 577 bis, comma 1, è un capolavoro di contorsione concettuale e approssimazione descrittiva, ispirata al linguaggio massmediatico. Per non dire della ovvietà della chiusa: “Fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575”.

Nessuna certezza su quello che sarà l’iter parlamentare del ddl, ma quando si legifera in certe materie – violenza di genere, codice rosso – è preoccupante la convergenza tra partiti carcerocentrici e quelli che – invece – per tradizioni culturali ormai risalenti mostrano qualche sensibilità per mitezza e finalità rieducativa della pena. Temo che saranno pochi i voti contrari…

I princìpi costituzionali non hanno messo davvero radici nelle forze politiche, neppure in quelle che si richiamano continuamente alla Carta. Invece di puntare al definitivo superamento dell’ergastolo, ci si compiace di andare nella direzione opposta. Per i cultori del pensiero politicamente corretto sarà difficile stigmatizzare l’ergastolo e al contempo salutare come una conquista di civiltà il delitto di femminicidio presidiato dalla pena perpetua. Il diritto penale si fonda su princìpi non negoziabili, tra cui il divieto di automatismi punitivi e la finalità rieducativa della pena, una luce che deve restare accesa per tutti i condannati, inclusi i colpevoli di femminicidio.

Il ddl trova terreno fertile, dissodato dalla positivizzazione del concetto di vittima voluta dagli estensori della riforma Cartabia e che oggi vede l’unanimismo addirittura per la sua costituzionalizzazione nell’art. 24.

La vittima è già tutelata dalla comminatoria di pena. L’eccessiva polarizzazione dell’attenzione sulla vittima non è priva di inconvenienti, perché porta con sé una flessione delle garanzie sostanziali e processuali. L’afflizione del colpevole, legittimamente assoggettato alla risposta sanzionatoria dello Stato, è il male strettamente necessario, non lo strumento per assecondare appagamenti di tipo vendicativo.

In altra parte di PQM, si criticano le norme procedurali del ddl. Io qui mi limito a evocare la previsione, per i reati a codice rosso, del parere della vittima sul patteggiamento, con obbligo del giudice di motivare perché non abbia assecondato quel parere: sfuma la natura garantistica della motivazione e la pena dissolve da sanzione pubblica a vendetta privata. L’illiberale unanimismo destra/sinistra fa sì che la vittima divori le garanzie dell’imputato, unica ragione dell’esistenza dei Codici.

La nuova disciplina del femminicidio non si ispira al profilo nobile della giustizia riparativa, che mira a favorire, attraverso l’incontro del reo e la sua vittima, il superamento del conflitto relazionale creato dal reato. Il ddl, come dicevo, batte la strada opposta del custodialismo perpetuo.

ANM, per bocca del suo presidente Parodi, non ha espresso critiche sul contenuto del provvedimento, salvo manifestare preoccupazioni di tipo operativo-organizzativo, incrementando il ddl il carico di lavoro specialmente delle Procure, già oggi oberate da un numero spaventoso di notizie di reato. Non ti sembra incoerente che si rivendichi continuamente l’indipendenza e l’autonomia della magistratura e si taccia sul fatto che questa normativa sprizzi sfiducia nei giudici da ogni poro?

Spero che questo silenzio non diventi assordante e che sia dovuto al tempo necessario per studiare approfonditamente le tante innovazioni proposte (del resto, la bozza di articolato circola da pochissimi giorni). La magistratura, quando vuole, sa far sentire la sua voce…

Insisto, per chiudere, sulle mostruosità procedurali, ricordando che il ddl regala per il solito catalogo di reati la presunzione di adeguatezza delle misure cautelari custodiali. Quando leggo queste norme, il pensiero corre a chi coltiva con ingenuità il sogno di introdurre nel sistema un processo davvero accusatorio. Intendiamoci, l’obiettivo è tanto nobile quanto irrealistico, almeno finché i nostri politici continueranno, tutti, a ignorare che cosa sono le garanzie o a professarle a corrente alternata.

Le derive illiberali in atto, sul terreno del diritto penale sostanziale e su quello processuale, richiedono un contrasto quotidiano. Non è solo l’ideologia dell’accusatorio che rischia di franare, ma l’intera civiltà del punire fondata sul personalismo costituzionale.