Gli applausi di chi l'ha affossata e le piazze di protesta
Ddl Zan, sconfitta al Senato: ma la sfida culturale è aperta
La mobilitazione delle piazze di questi giorni dopo l’affossamento del ddl Zan in Senato è motivo di sollievo. La sconfitta è stata parlamentare ma non culturale, né politica. Il lavoro di questi due anni non va perduto. Non vanno perdute le riflessioni di giuriste e giuristi; né il lavoro culturale che ha suscitato nel paese la coscienza dell’importanza del riconoscimento e della tutela delle soggettività LGBT+, e di una pedagogia sociale rivolta all’inclusione, alla relazione, al rispetto delle differenze.
L’ottimismo (della volontà) non può certo cancellare l’amarezza per l’assenza di tutele. Ancora in questi giorni si è sentito dire che non c’era bisogno di un’altra legge per proteggere le persone LGBT+. Le cose non stanno così: il ddl Zan voleva assicurare un livello di tutela ulteriore rispetto a quello dei reati comuni. Ovvio, infatti, che l’incolumità fisica delle persone sia già protetta dal diritto penale, ma in questo caso stiamo parlando di parole e azioni motivate dall’odio verso ciò che una persona è. Per colpirle, non bastano le aggravanti comuni: nemmeno quella per motivi abietti e futili che non nomina e, dunque, non riconosce lo specifico valore del “bene della vita” protetto. E non basta la legge Mancino, che colpisce solo discorsi e crimini d’odio motivati dal razzismo, o dall’origine etnica, nazionale e religiosa della vittima: è necessario estenderne le previsioni alle condotte motivate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, come proposto dal ddl Zan.
Allo stesso modo, l’ottimismo non ci esime dall’interrogarci sulle ragioni del voto in Senato. Un voto che ha radici lontane e responsabilità politiche molto chiare nella rottura del fronte che aveva consentito, alla Camera, di approvare un buon testo, nonostante i voti segreti. Pd, M5S, Leu, Italia Viva e alcuni settori di Forza Italia si sono confrontate per mesi (dalla fine del 2019), hanno mediato, fino ad approvare il testo nel novembre del 2020. Nel passaggio dalla Camera al Senato, una di queste forze politiche – Italia Viva – ha fatto venir meno il proprio appoggio: assieme all’atteggiamento ostruzionistico delle destre, ciò ha aperto una faglia che ha condotto direttamente al voto di mercoledì scorso. Qui vanno cercate le responsabilità: il ddl Zan è stato stritolato da esigenze di posizionamento tattico, il cui obiettivo diverrà chiaro nei prossimi mesi. Non sono mancate, in questi giorni, critiche al Pd, accusato di aver sposato una rigida posizione ideologica e di essere indisponibile a mediazioni ulteriori o “piccole modifiche”.
Non solo ciò non è vero – si pensi all’apertura di Letta al dialogo, nell’imminenza della ripresa dei lavori – ma non si specifica, nel criticare, quali avrebbero dovuto essere queste “piccole” modifiche. Non si dice, in altri termini, che – per trattare con chi avrebbe poi applaudito all’affossamento (e, come la Lega, aveva presentato più di 700 emendamenti al testo) – si sarebbe dovuto rinunciare a punti qualificanti della legge: e non sul piano ideologico, ma sul piano delle concrete tutele, soprattutto per le persone trans*. Questo sarebbe avvenuto, se si fosse eliminato, il riferimento all’identità di genere. Un concetto di uso giuridico ormai consolidato (dalla legge sull’ordinamento penitenziario alla giurisprudenza della Corte costituzionale), e sul quale si è aperto un dibattito a tratti surreale, che – soprattutto – non ha accolto né ascoltato la voce delle persone trans*, uniche davvero titolate a parlarne. A questo compromesso, giustamente, il Pd (con M5s e Leu) non ha voluto né potuto cedere: ammesso e non concesso che la richiesta di mediazione fosse autentica e non nascondesse invece – come dimostrato proprio da quell’orrendo applauso – solo la volontà di insabbiare o, com’è poi avvenuto, affossare il cammino del ddl Zan.
Il Pd non ha ceduto, per la determinazione del gruppo dirigente (dal segretario, alla capogruppo Malpezzi, ad Anna Rossomando, Franco Mirabelli, Laura Boldrini, Cecilia D’Elia e, ovviamente, Alessandro Zan e Monica Cirinnà); ma anche perché in questi mesi si è confrontato costantemente – attraverso il Tavolo del Dipartimento Diritti del partito, fortemente voluto da Cirinnà e che ho l’onore di coordinare – con le persone interessate, con le associazioni e il movimento LGBT+. Il ddl Zan dava (dà) risposta a una domanda di riconoscimento e giustizia, negata dal voto del Senato. Non legittimava né istituiva (come se una legge potesse farlo) condizioni personali; dell’esistenza di quelle condizioni personali prendeva atto, e le assumeva come valore, dimensioni della dignità da proteggere da odio e violenza. Aspetti della personalità da riconoscere, esperienze su cui costruire relazioni, alleanze, nuovi orizzonti di coesione culturale, sociale, politica. Su questo si è giocato il conflitto.
Ma quell’applauso non sancisce una sconfitta. In quell’applauso c’è l’illusione di chi ha pensato di poter fermare il vento con le mani. Il sollievo di chi ha agitato lo spauracchio del bavaglio, del “non si potrà più dire nulla”, confondendo il “politicamente corretto” con il rispetto che si deve alla dignità di persone in carne e ossa.
Le piazze di questi giorni sono piene di giovani e il sostegno nel paese è largo, come dimostrano tutti i sondaggi. Per quei giovani, anzitutto, è necessario che le forze progressiste – a partire dal Pd – riprendano con slancio l’iniziativa politica per la piena eguaglianza delle persone LGBT+, in sinergia con quel che si va muovendo nella società civile.
La vicenda del ddl Zan dimostra che si può avere coraggio, si può essere coerenti e tenere il punto su posizioni (non “ideologiche” ma) giuste, perché profondamente in sintonia con la vita delle persone. Dimostra che sui diritti – tutti, senza false contrapposizioni tra diritti civili e sociali – si gioca l’alternativa tra una società che esclude e una società che sulle differenze costruisce relazioni, alleanze, coesione, in alternativa chiara alle destre. Una lezione da non dimenticare.
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