Almeno lui ci mette la faccia. Lui sì che non le manda a dire. Le cose le prende di petto. Sono modi di dire ricorrenti, quando si parla di Vincenzo De Luca. Ed è difficile negare che abbiano anche un loro fondamento. Quando attacca, De Luca guarda diritto nella telecamera, e se ce l’ha con qualcuno, non gli gira intorno: lo bracca con una metafora, lo azzanna con un aggettivo. È dunque vero: ci mette la faccia. Ma nelle sue comparsate in tv o nei talk dei convegni, come l’altro giorno a Sorrento con Vespa, il governatore fa anche un uso smisurato del sarcasmo, cioè di un’arma retorica micidiale, che permette di dire e non dire; di dire nascondendosi. O di dire a Tizio perché Caio intenda. Ecco perché Jean-Paul Sarte descriveva il sarcasmo come “il rifugio dei deboli”.

Intendeva dire proprio questo: che nel suo uso è implicito l’atteggiamento di chi lancia la pietra e nasconde la mano; di chi mette alla prova la tolleranza del pubblico, ma è pronto a smussare gli angoli se le cose si mettono male. In più, il sarcasmo dà un’aura di superiorità a chi la maneggia, perché necessariamente deve essere uno che sa giocare con le parole. E allora? Allora De Luca è uno di quelli che ci mette la faccia, non il volto. Questo è il punto. E questo ribalta completamente il suo ritratto pubblico. Il latinista Ivano Dionigi, in un bel libro appena pubblicato, spiega bene l’equivoco: “faccia” è una parola «simbolo dei nostri giorni, improntati alla comunicazione visiva». Una parola «così fortunata e pervasiva da eclissare e sostituire volto, parola ben più ricca e dinamica…Volontà e sentimenti sono testimoniati dal volto e non dalla faccia». Astrattezze, si dirà. Vediamo.

A Sorrento, al convegno delle autonomie locali, De Luca vuole mettere in mostra il suo operato nell’emergenza sanitaria. E cosa fa per autopromuoversi? Dice che mentre lui si dava da fare, «un segretario di partito, che anche mio amico, è andato a fare un brindisi a Milano e siccome Dio c’è, si è beccato il Covid». Per Zingaretti non c’è scampo: colpito e affondato tra gli applausi. È il momento clou dell’ordito retorico, quello in cui De Luca mostra appunta la faccia. Ma quando, subito dopo, scatta la reazione romana del Pd («battuta sgradevole e inopportuna») e i giornalisti cominciano a ricamare sulla frase, ecco che il governatore nasconde il volto. «Trovo incredibile – dice – che una battuta possa essere stata interpretata come un atto politico. Il tono era leggero, e ovviamente scherzavo». Ed è sempre così. Anche quando dava dell’asino ragliante a Salvini, De Luca non intendeva offendere. O quando chiamava vispa Teresa Giorgia Meloni. O quando parlava di scippi e rapine a proposito di risorse sottratte da ministri di questo governo. O quando – a ridosso delle politiche – invitava a offrire fritture di pesce in cambio di voti.

È la magia del sarcasmo. Il riferimento allusivo? È solo un’impressione menzognera. L’offesa? Ora c’è ora non c’è: dipende. Comunque, il più delle volte è sempre colpa dei giornalisti che non capiscono. La controprova di questo uso politico del sarcasmo sta nel fatto che quando poi serve davvero un duello risolutivo, De Luca lo evita. Dice a tutti che la Campania è penalizzata nella ripartizione del fondo sanitario. Ma non lo dice mai apertamente ai suoi colleghi governatori, che nell’ambito della Conferenza Stato-Regioni quel fondo ripartono. Parla genericamente di interessi coalizzati ai danni dei meridionali, e questo fa scattare l’applauso sudista. Ma presidente della Conferenza è Bonaccini, anche lui del Pd. Avete mai visto un duello De Luca-Bonaccini? E mai lo vedrete. L’importante è aver detto e non detto. Averci messo la faccia, non il volto.