Per capire come si è arrivati alle deviazioni malavitose del tifo organizzato in Italia, bisogna andare alle origini dello sport nazionale più popolare. Il calcio italiano fin dalla notte dei tempi è stato uno sport “panem et circenses” in cui ricchi signori ottenevano l’utilizzo di strutture pubbliche (gli stadi) per creare squadre, sostanzialmente a fondo perduto (ovvero senza veri obiettivi di lucro), guadagnandone fama e gloria personale regolata dall’appartenenza a un consesso di loro pari – la Lega Calcio – e avallata dalla politica nazionale a tutti i livelli (al netto di qualche incursione in realtà mai radicalmente riformatrice).

Origine e sviluppo

L’atto di nascita formale di questo mondo – già esistente tra le due guerre – risale a inizio anni ’50 quando nacque il calciomercato come luogo fisico, inventato dall’allora presidente del Palermo (Raimondo Lanza di Trabia) che invitava tutti i presidenti all’Hotel Gallia di Milano, di sua proprietà, per trattative e compravendite. L’Italia è stata a lungo l’unico paese (solo il Messico per imitazione ha qualcosa di simile) in cui il calciomercato è un luogo fisico. Fino al nuovo millennio il modello di business del calcio italiano è stato B2B (business to business): compravendita di calciatori tra ricchi signori al calciomercato.

Il rosso a fine anno è sempre stato accetto, i passaggi di società (lo racconta bene Nicola De Ianni nel suo “Il calcio italiano 1898-1981 – Economia e potere”) erano cessioni “tecniche” che avvenivano con una stretta di mano e la sostanziale accettazione dell’acquirente di accollarsi la situazione debitoria e l’esposizione precedente. Un calcio business to business dove le società avevano strutture minime (dedicate quasi esclusivamente alla parte sportiva).

Lo stadio-pub in Inghilterra

Non era naturalmente l’unico modo possibile di strutturare un movimento calcistico. In Inghilterra ad esempio il calcio si affermò a fine ‘800 come mezzo attraverso il quale i grandi produttori di birra dominavano il mercato cittadino, perché lo stadio era di fatto il più grande pub. E infatti averne uno di proprietà era prioritario, mentre in Italia si accettava di buon grado la concessione dell’impianto comunale. Un modello, questo, che per contrapposizione possiamo definire business to consumer (B2C) perché appunto orientato ai tifosi senza mediazioni di sorta.

Gli effetti

In Italia l’accettazione di un conto economico sempre in perdita era il contraltare di un modello di business che sopportava le perdite in cambio di profitti indiretti o alternativi (favori politici, agevolazioni imprenditoriali, prestigio personale) e negli anni ha portato alla totale sottovalutazione dei ricavi da stadio (biglietti, ristorazione, parcheggi, merchandising). Fino all’avvento dei diritti tv (oggi vera architrave dei ricavi di un club). Si è sempre parlato, a livello giornalistico, del fatto che i rapporti società-tifosi fossero da tutti negati, ma innegabilmente esistenti.

Del resto i presidenti erano abituati a interfacciarsi a pochi interlocutori, liberi di fare i propri interessi al livello sottostante (tipico del B2B). Il tifo organizzato – nato nell’accezione moderna a inizio anni ‘70 – diventò un interlocutore naturale: ufficialmente chiedeva di potersi autofinanziare (ovviamente in maniera non regolamentata e senza che si capisse dove iniziavano gli interessi personali e finivano quelli collettivi), dall’altra garantiva colore ed era parte della costituzione del brand e dell’identità della società.

Impossibile dire se sia nato prima l’uovo (il tifo organizzato fine a sé stesso) o la gallina (la sua deviazione affaristica), ma con certezza possiamo affermare che tutto quello a cui stiamo assistendo in questi anni – non solo in questi giorni per quanto riguarda le curve delle squadre milanesi – è l’effetto dell’onda lunga di una serie di errori: la sottovalutazione del problema alla radice, una errata percezione del proprio orizzonte aziendale e il perfetto match tra questi errori strategici e le strutture del malaffare in Italia, che a volte sfociano in fenomeni criminogeni.

L’escalation

Questo mix letale è anche grossa parte della crisi economica del nostro calcio negli ultimi 20 anni: quando i grandi club di Inghilterra (già dagli anni ‘90), Spagna e Germania (dai primi 2000) si sono commercializzati sviluppando autonomamente tutte le aree di business tipico di una società sportiva, i nostri club erano impreparati e si sono trovati a pagare storiche carenze strutturali (gli stadi, le reti distributive). Questo nuovo modello di business era a loro estraneo e il divario è continuamente peggiorato.

Quella a cui stiamo assistendo in questi anni in varie città d’Italia è la manifestazione di un sistema radicato, in cui le società parlano con i gruppi organizzati perché “così hanno sempre fatto”, salvo poi rendersi conto che stanno loro stessi alimentando fenomeni parassitari al loro interno, finanche a esporsi alle deviazioni malavitose degli stessi (che hanno infine business ramificati, ad esempio nello spaccio di droga). E come sempre accade, tra chi denuncia, chi viene scoperto, chi rimane nell’ombra e chi riesce a farla franca, risulta difficile tirare una linea di demarcazione netta e si ha l’impressione che una sola cosa sia comune a tutti: i rapporti tra curve e società sono un fenomeno collettivo, esistono perché sono sempre esistiti; individuali sono invece le fattispecie sulla loro emersione (per denuncia, autodenuncia, indagine spontanea o eventi delittuosi).

Che fare? Il metodo Thatcher ha fallito

Ogni volta che nasce un problema ultras, in Italia qualcuno invoca – pace all’anima sua – la buon’anima di Margaret Thatcher, che fu primo ministro inglese dal 4 maggio 1979 al 28 novembre 1990. Ma attribuirle i successi inglesi nel debellare gli hooligans è un falso storico: sul tema la Thatcher fallì completamente perché – seguendo quello che da sempre era il suo atteggiamento nei confronti delle masse popolari – fu sostenitrice di metodi repressivi che si manifestarono sin dai suoi primi anni e si intensificarono dopo la strage dell’Heysel del 29 maggio 1985 (39 morti), culminando in un ancor più macabro tributo di vite umane: 96 vittime schiacciate contro le inferriate allo stadio di Hillsborough (Sheffield) nel maggio 1989. Quelle inferriate volute dalla Lady di Ferro erano chiamate anti-Heysel: cementate nel terreno e impossibili da sfondare.

La vera svolta arrivò con il Taylor Report, varato nel 1990 sotto l’egida del barone Peter Taylor, al tramonto dell’era Thatcher, dopo dieci anni di insuccessi sul fronte hooligans e dopo Hillsbrough. Taylor andò in tutt’altra direzione: responsabilizzava i club, imponeva loro investimenti sugli stadi (sia chiaro: non la proprietà, ma l’obbligo a normalizzarli anche se pubblici), dovendo abbandonare l’idea di biglietti nominali (giudicata in contrasto con le leggi sulla privacy) e imponendo i posti a sedere. Peraltro, mentre l’hooliganismo inglese degli anni ‘70 e ‘80 era un fenomeno di teppismo criminale metropolitano fomentato da numerose piccole bande, oggi in Italia siamo di fronte a metodi totalmente diversi e contigui alla grande criminalità organizzata di stampo mafioso.

Diciamolo una volta per tutte: l’Inghilterra degli anni ‘80 non aveva nulla a che vedere con l’Italia di oggi e non vi è alcun modello inglese da cui imparare. E insomma, evocare la Thatcher è uno slogan. Ma uno slogan vuoto. Siamo di fronte a un problema tutto italiano, radicato nel DNA del nostro calcio e che si incrocia con fenomeni extrasportivi tutti italiani. E per “qui” non si intendono solo i fatti all’attenzione delle cronache di questi giorni, ma tutto quello che in diverse città (da Milano a Torino, Roma e Napoli e con meno clamore in città di ridotte dimensioni) è emerso in questi anni. Senza alcuna distinzione.

L’altra cosa tutta italiana, di cui potete stare certi, è che a ogni fatto di cronaca ci sarà chi invocherà regole nuove. La realtà tuttavia è che le leggi ci sono e vanno applicate: non esiste alcun elemento per dire che l’impianto esistente non possa essere efficace. Invocare riforme così, per consuetudine, buttando a mare l’esistente, è un malcostume tutto italiano che va riconosciuto e stigmatizzato. Che fare allora? Proviamo a suggerire un periodo transitorio entro il quale tutti sono chiamati a vuotare il sacco. Si tiri una linea di demarcazione e si riparta imponendo responsabilità a club e tifosi, isolando i fenomeni criminali e criminogeni, continuando a perseguire ovviamente le responsabilità criminali in quanto tali.

Il riconoscimento facciale

Bene invece la presa di posizione dell’ad della Serie A, Luigi De Siervo, sui sistemi di sicurezza, perché certe situazioni non le combatti solo con la carota: “Dobbiamo intervenire con meccanismi di riconoscimento facciale – ha detto – Sarà uno dei primi interventi che consentiranno di registrare le immagini del volto al tornello associandolo a un nome e a una posizione. Queste immagini verranno conservate in un server criptato a disposizione delle forze dell’ordine in caso di necessità. Le prime implementazioni saranno effettuate entro fine campionato, ci auspichiamo che tutto possa concludersi nel corso del 2025″. Ma qui naturalmente servirà capire quanto le società saranno veloci nell’investire, perché sono loro a doversi dotare in fretta di tutti gli strumenti adeguati. Nel frattempo, però, si vada avanti accertando e debellando ovunque le associazioni criminali che si sono infiltrate nel calcio italiano.