Editoriali
Democrazia oltre lo Stato, la vera sfida dei riformisti: la nuova linea divisoria nelle società occidentali è il liberalismo politico
Il confronto politico in Italia sembra concentrarsi su come si dislocheranno nelle diverse coalizioni, in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, i piccoli partiti personali che perseguivano, fino a qualche settimana fa, l’obiettivo di costruire il Terzo polo. Pochi riflettono sulla novità introdotta da Forza Italia con la posizione assunta sulla cittadinanza agli immigrati. E nessuno reagisce all’indifferenza confermata da Conte sull’esito del voto nelle presidenziali americane. Eppure, tali segnali rafforzano una lettura dei processi sociali e politici indotti dalla globalizzazione che vede tracciarsi una nuova e primaria linea divisoria nelle società occidentali: l’accettazione o il rifiuto del liberalismo politico. Una dicotomia che surclassa l’antica polarizzazione destra/sinistra e che relega quest’ultima a interpretare semmai i diversi approcci a specifiche riforme socio-economiche ma non già la scelta di fondo dinanzi a noi: in quale società vogliamo vivere (aperta o chiusa, mono-razziale o multirazziale) e in quale regime politico (democrazia liberale o autocrazia).
Ha ragione Sergio Fabbrini (Sole 24 Ore del 25 agosto): sia il vecchio antieuropeismo americano che l’atavico antiamericanismo europeo ottundono la capacità di percepire quanto, negli ultimi tempi, siano diventati mobilitanti, sul piano elettorale, i temi della democrazia liberale. Sarebbe una bella notizia se, ad esempio, nascesse in Italia un intergruppo parlamentare sulla “democrazia oltre lo Stato”, intenzionato a elaborare proposte legislative in rapporto stretto coi nostri parlamentari europei e con gli elettori da coinvolgere attraverso i social. Un intergruppo che si identificasse in una comune politica estera: chiara collocazione atlantica; netta scelta pro integrazione europea; difesa delle democrazie liberali dagli attacchi degli Stati autocratici e teocratici e dei gruppi jihadisti.
La politica estera è l’elemento essenziale che qualifica una politica riformista. E, come sosteneva Luigi Sturzo, è “la chiave della politica interna e della politica economica”. Se si osserva l’atteggiamento del nostro ceto politico su quanto avviene nelle guerre a Est e nel Vicino Oriente, si può notare invece un fuggi fuggi dall’assunzione di responsabilità sia da parte del governo che dell’opposizione. Per questo i riformisti, ovunque si collochino negli schieramenti politici, dovrebbero essere lievito e coscienza critica per tenere la barra ferma sulla politica estera e richiamare le forze politiche ad assumersi le conseguenze delle proprie scelte anche a rischio di perdere consensi. Nel contempo, dovrebbero elaborare proposte di riforma tese a migliorare il sistema in quanto tale e mettere il paese nelle condizioni di agire efficacemente nel contesto dell’interdipendenza europea e globale.
Le elezioni presidenziali americane del 5 novembre stanno all’interno di tale interdipendenza. Tifare per il ticket Harris–Walz è, infatti, essenziale per fermare il populismo, non solo in America ma anche da noi. L’approccio di Trump alla politica estera è unilateralista. Niente accordi globali multilaterali ma solo accordi bilaterali tra l’America e l’uno o l’altro paese. Questo modo di concepire le relazioni internazionali accresce la conflittualità. La guerra sulle tariffe è micidiale per i paesi europei che si sostengono sulle esportazioni. Mentre la ripresa del multilateralismo toglierebbe il terreno sotto i piedi ai sovranismi e ai nazionalismi di casa nostra e aprirebbe scenari inediti per la ripresa economica in Italia e nella Ue.
All’approccio multipolare corrisponde, sul piano interno, la visione pluralista delle istituzioni. Bloccare l’involuzione illiberale della Corte suprema promossa dalla presidenza Trump e attuare il Piano Biden, volto a riformare l’istituzione americana che ha il potere dell’ultima parola sull’interpretazione delle leggi e presentato il 29 luglio scorso, significherebbe scansare il pericolo di un arretramento, sul terreno delle libertà, in un paese che costituisce il bastione della democrazia. E darebbe una spinta formidabile alle riforme istituzionali necessarie alla Ue (creare una sovranità europea in materie cruciali come politica estera, Difesa, clima, innovazione tecnologica, demografia e migrazioni; dotare il Parlamento dell’iniziativa legislativa, nonché della funzione di dare e togliere la fiducia al governo dell’Unione e di approvare un Bilancio autonomo e non derivato, fondato su risorse proprie acquisite con l’imposizione fiscale diretta e con l’indebitamento delle istituzioni unionali) e all’Italia (premierato, regionalismo differenziato, giustizia, rappresentanza politica e sindacale). In sostanza, un riformismo che incarni la cultura dell’interdipendenza.
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