Il bel libro di Francesco Clementi e Gianluca Passarelli Eleggere il Presidente. Gli Stati Uniti da Roosevelt a oggi edito da Marsilio è in grado di guidarci bene anche in questa fase successiva al voto degli elettori, soprattutto su alcuni problemi che sono emersi con evidenza. Gli autori ci spiegano bene come negli ultimi decenni si sia realizzato un marcato processo di polarizzazione a livello sociale (che vediamo particolarmente forte lungo la linea divisoria città-campagna) e politico (in particolare p. 48 e pp. 95-96). Questo processo, di cui la fase di attuale problematica transizione è uno dei fenomeni più recenti, mina in certa misura la funzionalità del sistema.

Infatti soprattutto le forme di governo basate sulla separazione delle istituzioni (che però condividono il potere) possono funzionare bene sulla base di un’attitudine pragmatica al compromesso. Altrimenti le istituzioni separate possono bloccarsi a vicenda con paralisi di sistema. Mentre le forme parlamentari reggono meglio conflitti anche duri perché comunque la fusione del Governo con una maggioranza può garantire alcuni standard decisionali, sempre che la maggioranza non sia a sua volta troppo divisa, le forme presidenziali american style non possono permetterselo.

Da questo punto di vista il fatto che dal 1968 per i tre quarti del tempo il governo sia stato diviso (pp. 86-87, ossia che il colore della Presidenza non abbia coinciso con quello del Congresso) di per sé, senza questa polarizzazione, non sarebbe problematico perché l’attitudine al compromesso renderebbe comunque scorrevole il sistema, invece lo diventa in questo specifico contesto. Di fatto ciò finisce col politicizzare al massimo anche la procedura di impeachment (p. 60) che può partire agevolmente dalla Camera quando la maggioranza è opposta, ma che non può raggiungere l’esito positivo a causa dell’alto quorum dei due terzi del Senato, che un partito da solo non riesce a raggiungere. La polarizzazione spiega anche la persistenza dell’uso partigiano del ritaglio dei collegi elettorali per la Camera da parte dei legislatori statali, fin qui non arginata da una giurisprudenza timorosa della Corte Suprema (pp. 84-85).

Il rendimento della democrazia americana appare quindi più basso nell’attuale periodo. Questo è il problema strutturale, mentre altri appaiono eccessivamente enfatizzati, come quello del collegio dei grandi elettori, specie dopo la sentenza Chiafalo della Corte Suprema (richiamata a pag. 32) che ha dichiarato legittime le sanzioni varate da alcune legislazioni statali contro le possibili infedeltà di grandi elettori e che quindi ha favorito una rispondenza tra voto dei cittadini e voto dei grandi elettori. È un problema eccessivamente enfatizzato, come mi sembra sostengano alla fine anche gli autori, in particolare alle pp. 114-118 non tanto perché le critiche a un meccanismo piuttosto barocco che sovrarappresenta troppo gli stati agricoli minori (e, quindi, di fatto, i Repubblicani) siano infondate, ma perché la possibilità statistica che il vincitore in voti possa perdere nel collegio è comunque relativamente bassa.

Perché essa si traduca in realtà occorre che lo scarto complessivo in voti non sia troppo elevato, altrimenti un vantaggio significativo si spalma comunque sugli Stati in modo da far coincidere la vittoria popolare con quella nel Collegio. Caso mai un vero difetto di arcaicità sarebbe da ravvisare nelle nomine vitalizie alla Corte Suprema, in seguito all’aumento della speranza di vita. Ora, però, attendiamo dagli autori l’aggiornamento del volume dopo l’insediamento del nuovo Presidente.