Il caso
Denuncia la figlia per errore, una vicenda assurda per una carta di credito “rubata” al padre
Una storia come tante altre. Una carta di credito qualunque, l’avviso sul cellulare di un addebito. L’uomo che, preoccupato dall’importo, cerca di capire cosa sia accaduto e scopre subito l’acquisto di qualcosa di molto costoso in uno dei negozi dello shopping di lusso della Capitale. Di lì a chiamare i Carabinieri un attimo. Una pattuglia si fionda al negozio e chiede di visionare le telecamere di sicurezza. Si vedono due ragazze e un ragazzo intente all’acquisto di qualcosa. Si vede la borsa costosa finire impacchettata e una delle due ragazze accostarsi alla cassa per pagare con una carta di credito.
I Carabinieri, giustamente soddisfatti, avvisano l’uomo che può recarsi in caserma per denunciare l’accaduto, ci penseranno loro a identificare i tre mascalzoni. L’uomo torna a casa, racconta l’accaduto in famiglia e si accorge, però, che la carta di credito non era nel solito cassetto della sua scrivania, che qualcuno l’ha portata via. Corre in caserma e racconta l’accaduto ai militari i quali, a quel punto, mostrano il video al malcapitato che, con sgomento e sorpresa, scopre che la ragazza alla cassa intenta a pagare è sua figlia. Ovviamente lavata di capo, urla e strepiti. La ragazza, da poco maggiorenne, si era invaghita di un tizio belloccio che, insieme alla sua complice, aveva convinto la poverina al gesto ossia a fare un regalo alla tipa che l’accompagnava e così la frittata era stata fatta.
Il codice penale di Mussolini, quello che il ministro Nordio giura di voler modificare, in una norma di straordinaria saggezza prevede che il furto di denaro tra familiari conviventi non sia punibile. Persino il fascismo comprendeva che doveva evitare di mettere il naso tra le mura del focolare domestico e che se la moglie portava via soldi al marito o un figlio al padre erano pur cavoli loro. La morale fascista è un conto, ma la pace familiare è questione delicata da cui persino un regime totalitario preferiva stare alla larga. Tutto a posto, quindi. Manco a dirlo. Nel 2007, in ossequio ai soliti obblighi eurocomunitari, il legislatore aveva previsto un apposito reato – poi confluito nel Codice penale (art. 493.ter) – in forza del quale chiunque utilizza indebitamente «non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, o comunque ogni altro strumento di pagamento diverso dai contanti» è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro.
Vabbè e che importa? direbbe l’uomo qualunque, il saggio cittadino, la brava madre di famiglia. Se la figlia avesse prelevato il denaro in contanti dalla cassaforte o dal cassetto della camera da letto dei genitori non sarebbe stata punibile, a chi importa che, invece, abbia comprato la borsa di lusso con la carta di credito dell’ignaro genitore? Sempre soldi sono. In un paese normale il discorso non farebbe una piega. Anche in un ordinamento giuridico normale. Ma la Corte costituzionale, prima, e la Cassazione, dopo, hanno sempre negato che l’esclusione della punibilità, concepita dal ministro fascista Rocco nel lontano 1930 per la moneta contante rubata tra le mura di casa, si possa applicare alla moneta elettronica. Si dice con estrema e curiale precisione che l’art.493-ter ha natura «plurioffensiva» (una sorta di trappola definitoria che rappresenta uno dei caposaldi della cultura penale ipogarantista di questo paese) ossia tutela non solo il patrimonio personale del titolare della carta di credito (il padre), «ma anche gli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione di tali strumenti da parte dei consociati» (la finanza internazionale).
Siamo una nazione strana e sorprende che qualcuno si sorprenda di una norma come quella che punisce i rave party. Insomma, come dire, puniamo i rave party non solo perché minacciano la salute dei ragazzi, mettono spesso a rischio la loro incolumità personale, ma perché sono un pericolo per la sicurezza pubblica, per cui anche se non circolasse un goccia d’alcol o un grammo di droga (può essere), il delitto resta. Si celebra, quindi, il processo con la fedifraga figlia, poco più che diciottenne, come imputata e con il padre disperato nelle vesti di una riluttante parte offesa. La Corte costituzionale ha parlato chiaro, la Cassazione pure, la partita è chiusa c’è poco da discutere; fedina penale macchiata a vita e chissà quanti impicci.
Si dice che anche i carabinieri, presidio di saggezza in questa malcapitata patria, si fossero scusati col padre ignorando che, denunciando alla Procura i due truffatori, avrebbero messo nei guai anche la ragazza. Si racconta che il giudice, infischiandosene degli illustri precedenti, abbia assolto la pasticciona e allungato di qualche anno la vita al povero genitore assillato e tormentato dai sensi di colpa per aver fatto una denuncia al buio. Strano paese questo, in cui la giustizia – se vuole – non conosce alcun padrone se non quello della propria coscienza. Strano, ma a volte così bello.
© Riproduzione riservata