La prassi consolidata
Deputati e senatori italiani abituati a migrare: quando a forza di cambiare casacca i colori si sbiadiscono
Migranti. Deputati e senatori italiani hanno una lunga e consolidata abitudine alle migrazioni, molto meno drammatiche di quelle di cui poi discutono in aula e sui giornali. La loro migrazione è da un gruppo parlamentare a un altro. Da un partito a un altro. La riduzione del loro numero (400 deputati e 200 senatori, in questa legislatura) non ha cambiato la propensione a un sempre più lieve incardinamento nelle forze politiche in cui avevano preso impegno. Dopo due anni dalle elezioni del settembre 2022 sono 52 i parlamentari che hanno già cambiato casacca. Poco meno del 10% degli eletti. Tanto? Meno della scorsa legislatura, ma il bilancio, per essere omogeneo, lo potremo fare tra tre anni.
I precedenti
Nella legislatura precedente a questa data erano stati 214 i migranti, circa il 20% degli eletti (erano circa mille allora i rappresentanti del popolo italiano). In quella prima ancora erano di più: 348 (circa il 30%). Infedeltà? Non si tratta di un problema morale, ma squisitamente politico. E forse ha persino meno senso rammentare che nessun eletto può avere un “vincolo di mandato”, cioè può scegliere dove collocarsi, a prescindere dalla formazione e lista in cui si era candidato e dove è risultato eletto. Nella storia repubblicana, quando le preferenze diventavano qualificanti, il vincolo di mandato sarebbe stato certamente incongruente. Ogni eletto si “guadagnava” l’elezione, a colpi di voti personali.
L’abolizione delle preferenze
Ma da quando le preferenze sono state abolite (e aborrite) forse con una eccessiva leggerezza, la questione ha cambiato un po’ la sua natura. L’elezione è direttamente proporzionale alla scelta del partito: l’elettore ormai sceglie il simbolo, e nel simbolo il nome del leader, non il nome del candidato che si trova in lista in funzione della sua relazione con il leader. In queste condizioni l’assenza del vincolo di mandato ha lo stesso peso che aveva nella stesura della nostra Carta costituzionale? Credo di no. Ma al contrario non scatta nemmeno quella fedeltà che il personalismo potrebbe determinare: la riconoscenza, si sa, è il sentimento del giorno prima. Ma c’è chi la consuma ancora prima che venga il giorno dopo.
Gli eletti continuano a migrare
Non solo, anche la “pratica” democratica nei partiti è cambiata, e molto, fino a ridursi a pura parvenza, dietro i personalismi sempre più forti e meno discutibili. E vale per tutti. Quanti congressi si fanno? E quante elezioni congressuali? La questione vale per Forza Italia e per il M5S, vale per la Lega e per Azione o Italia Viva. Quando Carlo Calenda indice il congresso precostituendo la sua personale presidenza, vuol dire che qualcosa non funziona più come ci aspettavamo in quella che è la peggiore forma di governo possibile (“eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora”, per dirla con Churchill): la democrazia. Mettere in soffitta la democrazia, nella pratica politica dei partiti, sostituita da personalismi sempre più forti e ostentati non è cosa da poco. E ancora vale per tutti. Anche per il Pd che nel suo ultimo congresso aveva indicato una candidatura per la segreteria, smentita nella scelta di quella forma strana che è la “democrazia dei gazebo”, dove per votare basta pagare. Per poi scoprire che l’eletta dei gazebo, l’attuale segretaria Elly Schlein alle europee disse, “ora basta cacicchi e correnti, decido io”. Nonostante questa profonda trasformazione delle pratiche politiche nei partiti gli eletti continuano a migrare. Il personalismo vigente non è un collante efficace per trattenere i parlamentari più ondivaghi. Opportunisti? Ancora una volta il rischio è quello di far scattare un giudizio morale, che è meglio evitare. Ma è altrettanto inevitabile che questa liquidità – una società liquida presuppone un Parlamento liquido, no? – possa indurre a una calante credibilità. L’uomo è un animale sociale (e scomodiamo Aristotele), e per la socialità l’elemento della credibilità non è marginale. E la credibilità richiede un minimo di stabilità, perché diventa credibile chi è almeno riconoscibile.
Cosa serve per riconoscersi
Basta una casacca per riconoscersi? Certamente no. Ma se non è l’abito a fare il monaco, al monaco si attribuisce una discreta coerenza di valori e di convinzioni, per perseguire le quali l’abito diventa meno importante. Ma è possibile che nel Parlamento italiano ci siano così tanti monaci? Dubitare è lecito. È vero che a cambiar casacca sono ormai anche le star del pallone, invocando merito e professionismo. Ma è certo che a forza di cambiare maglia, è inevitabile che i colori sbiadiscano. Non solo nel calcio. Anche in politica. E quando i colori sono troppo sbiaditi (o le maglie, come nel calcio, perdono ogni riferimento con i “colori” tradizionali) è inevitabile che il legame tra eletto ed elettore si faccia meno forte, al punto da produrre quella disaffezione che si traduce in astensionismo, prima, e poi in sostanziale disinteresse per la “cosa pubblica”. Resta la “cosa”, che si può conquistare in ogni modo, cambiando, trasformando, tradendo se serve.
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