L'intervista nel 20esimo anniversario della liberazione di Mandela
Desmond Tutu: “Mandela è il più grande di tutti perché fedele all’Ubuntu”
Ora che non è più tra noi è tempo di celebrazioni. Meritate. Perché Desmond Tutu, scomparso il 26 dicembre all’età di 90 anni, è stato a pieno titolo un Grande della Storia. In Sudafrica. Nel mondo. Chi scrive ha avuto l’onore di conoscerlo e intervistarlo. Rileggerlo oggi che non c’è più non è solo un omaggio alla memoria ma è un testamento di vita. Una lezione di storia. Parlava del suo complesso, straordinario rapporto con Nelson Mandela ma al tempo stesso le sue considerazioni danno conto di un percorso umano, religioso, politico di chi ha indicato la via della rivoluzione con il perdono. L’intervista fu pubblicata da L’Unità il 10 febbraio 2010. “Sono trascorsi venti anni da quel giorno in cui potè riabbracciare colui con il quale aveva condiviso un lungo, drammatico, esaltante cammino di libertà. Venti anni dopo, Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace 1984, non nasconde la sua emozione nel riandare «con il cuore e la mente a quel giorno indimenticabile, in cui la ritrovata libertà di Nelson Mandela dette un impulso decisivo alla lotta di un intero popolo contro il regime dell’Apartheid. Quel giorno fu posta una pietra miliare nella costruzione del Nuovo Sudafrica».
Sono passati venti anni da quell’abbraccio interminabile tra due grandi amici prim’ancora che compagni di lotta. Un’amicizia nata a Vilakazi Street, nel centro di Soweto, dove Nelson e Desmond sono cresciuti. Il primo arcivescovo anglicano nero di Città del Capo, Nobel per la Pace per la sua lotta non violenta contro l’apartheid, non ha mai fatto venire meno la sua voce, il suo impegno, ovunque nel mondo i diritti della persona, delle minoranze, di interi popoli – come quello palestinese – vengono calpestati. «In questa battaglia – dice l’arcivescovo sudafricano – ho sempre avuto a mio fianco Nelson, anche quando aveva assunto la guida del Sudafrica. Certo, doveva fare i conti con i compromessi che per un capo di Stato sono all’ordine del giorno, ma posso dire che mai, mai la ragion di Stato ha portato Nelson Mandela a venir meno ai principi che hanno ispirato la sua, la nostra vita».
Una vita che Desmond Tutu ha sempre cercato di condurre sulla base di due assunti: «Il primo – spiega – è che un vero patriota sa che il prezzo della libertà è la costante vigilanza, perché una conquista non è data una volta per sempre». Il secondo principio è quello che ha dato il titolo alla sua autobiografia: «Non può esistere futuro senza perdono». «Perdonare e riconciliarsi – rimarca Tutu – non significa far finta che le cose sono diverse da quello che sono. Non significa battersi reciprocamente la mano sulla spalla e chiudere gli occhi di fronte a quello che non va. Una vera riconciliazione può avvenire soltanto mettendo allo scoperto i propri sentimenti: la meschinità, la violenza, la degradazione… la verità».
Venti anni dopo, Desmond Tutu non cambia di una virgola ciò che ebbe a dire, già anni fa, di «Madiba», il nome con cui tutti i neri chiamano Mandela. «Nelson Mandela trascorse ventisette anni in prigione. Quei ventisette anni furono la fiamma che temprò il suo acciaio, rimuovendo le scorie. E quella sofferenza patita nell’interesse di altre persone gli conferì un’autorità e una credibilità che non avrebbe potuto avere altrimenti. I veri leader devono prima o poi convincere i loro seguaci che non si sono buttati nella mischia per interesse personale ma per amore per gli altri. Niente può testimoniarlo in modo più convincente della sofferenza. Sarebbe riuscito Nelson Mandela a ritagliarsi il suo posto nella storia come grande leader politico e morale senza quella sofferenza? Ne dubito».
Venti anni fa il “prigioniero politico più famoso del mondo” riacquistò la libertà dopo oltre ventisette anni di carcere…
«No, Nelson non riacquistò la libertà, la conquistò. E con lui un intero popolo che aveva fatto di “Madiba” il simbolo della lotta all’Apartheid. Ogni giorno, ogni ora di quella vita trascorsa in carcere, Nelson l’aveva consacrata alla libertà. Anche in carcere è sempre stato un uomo libero».
Lei è tra gli amici di lunga data di Nelson Mandela: i vostri nomi, i vostri volti sono divenuti per intere generazioni al mondo i simboli della lotta all’Apartheid. Un’amicizia vera, come la vostra, è stata anche molto vivace…
Lo dica pure: tante volte abbiamo alzato la voce, provando a convincere l’altro che aveva torto, che la scelta giusta era un’altra. Non sempre siamo stati d’accordo, ma ciò non toglie il mio giudizio di fondo su Nelson Mandela…»
Qual è questo giudizio, arcivescovo Tutu?
Nelson Mandela è stato, è un grande. Non solo per come ha combattuto ma per come ha saputo vincere. Con lo spirito di giustizia, mai di vendetta. Vede, non è da tutti riuscire ad essere, nell’arco di una vita, il leader amato, osannato di un movimento di rivolta e, successivamente, ad essere visto, accettato, come il Presidente di tutti i sudafricani, al di là del colore della pelle, dell’appartenenza etnica o religiosa. Nelson Mandela c’è riuscito».
Riferendosi alla lotta all’apartheid in molti, a quei tempi, la paragonarono alla lotta dei neri degli Stati Uniti, negli anni 60, per i diritti civili.
«La situazione presentava molte analogie. Ma con una differenza: che noi non potevamo combattere per i nostri diritti civili, perché, da un punto di vista legale e civile, i neri in Sudafrica non esistevano, non erano previsti nemmeno dalla Costituzione. Noi lottavamo per essere riconosciuti come esseri umani, per il semplice diritto di esistere».
Un passaggio decisivo nella costruzione del Nuovo Sudafrica vide di nuovo assieme Nelson Mandela e Desmond Tutu. È quando Mandela decise di affidarle la guida della Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Lei ha sempre sostenuto che questo fu uno dei più grandi atti compiuti da Mandela.
È così. A rispondere alla sfida di de Klerk (l’ultimo presidente dell’apartheid, che l’11 febbraio 1990 ha firmato il decreto per liberare Mandela, ndr) non fu un uomo vendicativo, deciso a ripagare i bianchi con la stessa moneta. Fu un uomo regalmente dignitoso, magnanimo e sinceramente desideroso di dedicare le proprie forze alla riconciliazione tra coloro che le ingiustizie e le sofferenze del razzismo avevano reso nemici. Mandela non uscì di carcere pronunciando parole di odio e di vendetta. Al contrario, riuscì a meravigliarci per la capacità di incarnare in tutti i suoi atti la volontà di riconciliazione e di perdono. E di questi atti, la Commissione che io ebbi l’onore e l’onere di guidare, fu tra i più significativi.
“La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana (istituita dall’allora primo ministro Nelson Mandela nel 1995, e che operò dal 1996 al 1998, ndr) ha fatto accendere tutti i riflettori su di noi… Nel corso delle audizioni, Desmond Tutu ha fatto emergere la nostra comune pena e il dolore, ma anche la nostra speranza e fiducia nel futuro”. Parole di Nelson Mandela…
Delle quali gli sarò sempre grato. Vede, in fondo Nelson e io non abbiamo fatto altro che essere fedeli ad un tratto fondamentale della visione africana del mondo, quella che noi conosciamo con il nome di “ubuntu”. Una persona con “ubuntu” è aperta e disponibile agli altri e non si sente minacciata dal fatto che gli altri siano capaci e anche migliori perché possiede una certezza che deriva dal sapere di appartenere a un gruppo più grande e che è diminuito quando gli altri si sentono umiliati o sminuiti, quando gli altri sono torturati oppure oppressi. Nello spirito dell’“ubuntu” fare giustizia significa risanare le ferite, correggere gli squilibri, ricucire le fratture dei rapporti, cercare di riabilitare le vittime quanto i criminali, ai quali va data la possibilità di reintegrarsi nella comunità che il loro crimine ha offeso. La riconciliazione non è qualcosa che ti mette comodo, non ti permette di fare finta che le cose siano diverse da come sono; la riconciliazione basata sulla falsità o sulla mistificazione della realtà non è vera riconciliazione e non può durare. Ciò che ha animato la Commissione per la verità e la riconciliazione è stata la ricerca di una giustizia ricostruttiva. Di ciò non io o Nelson ma l’intero Sudafrica deve essere orgoglioso.
Venti anni dopo. Si può dire che il Sudafrica sia diventata ciò che Lei sognava che fosse?
Lei si riferisce all’idea della “Rainbow nation” (una nazione arcobaleno). No, quel sogno non si è ancora pienamente realizzato. C’è ancora molto da fare nel campo della giustizia sociale, dell’eguaglianza tra donne e uomini, nella lotta all’Aids… Ma se guardo a quei tempi, mi dico: Desmond non essere troppo intransigente, il cammino della libertà è ancora lungo ma tanta strada è stata fatta. E nella direzione giusta.
In questi giorni in Italia uscirà un film molto atteso, “Invictus”, incentrato sulla vittoria della nazionale sudafricana ai mondiali di rugby del 1995. Cosa rappresentò per il Sudafrica quell’evento?
Un dono di Dio… La nostra squadra vinse e questo cambiò profondamente il nostro Paese. Quella vittoria contribuì alla pacificazione più di quanto possa fare io con le mie prediche nel corso di un anno intero.
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