Di carcere, in Italia, si muore.
Si muore a 28 anni, togliendosi la vita, come è successo ad Azzurra.
Si muore perché si sceglie di smettere di nutrirsi, come è successo a Susan, madre di 43 anni.
Azzurra aveva detto alla sua mamma, una settimana prima del suicidio, che non ce la faceva più. Immaginate il dolore di quel genitore, l’impotenza. Vi chiederete quali crimini avesse commesso Azzurra per stare lì: era una ladra di biciclette, tanti piccoli reati l’avevano portata a Le Vallette.
La verità è che Azzurra in carcere non avrebbe dovuto esserci. Susan, per il reato commesso, immaginiamo di sì, ma non in quelle condizioni. Susan e Azzurra sono solo due delle vittime del sistema carcerario italiano.

Un sistema che va ripensato completamente.
Da un lato, si dovrebbe partire dal paradigma per cui la reclusione dovrebbe essere l’ultima istanza: la pena non coincide con il carcere. E allora, andrebbe limitato ai casi in cui non è possibile in altro modo garantire la sicurezza della collettività. E quella pena dovrebbe essere eseguita in strutture dignitose: non nelle gabbie per polli che sono le prigioni italiane. Per gli altri, esistono i domiciliari, il braccialetto elettronico, l’affidamento in prova. Parliamo degli innocenti in attesa di sentenza definitiva ma anche dei condannati per reati che non destano particolare allarme sociale.
E alle vittime chi ci pensa? Diranno in molti. Ebbene, considerato che il carcere favorisce la recidiva, le pene alternative sono nell’interesse anche e soprattutto dei cittadini.

Qualche dato potrà essere utile per capire: dei 18.654 detenuti che hanno avuto accesso al lavoro in carcere, solo il 2% ha commesso recidiva. La media è al contrario quasi del 70%. E ancora, i numeri ci dicono che la percentuale di chi commette un nuovo reato dopo essere stato in carcere è del 68,45%: al contrario, per chi è stato condannato a misure alternative alla detenzione la percentuale è del 19%. Fatti, non sensazioni.
È la differenza fra buon governo e populismo, di cui quello giudiziario è forse la forma peggiore: se il fine è garantire la sicurezza dei cittadini, come uno dei compiti essenziali dello Stato, e non la ricerca di facile consenso, allora il carcere non è sempre la scelta migliore. Altro che caserme dismesse: da un Ministro garantista come Nordio, ci aspetteremmo meno carcere, non nuove celle.

È proprio dal modo in cui lo Stato tratta chi è in sua custodia (il famoso habeas corpus) che si misura il grado di civiltà di un Paese. E l’Italia ne esce con le ossa rotte.
La nostra preghiera e il nostro pensiero vanno quindi a chi è dietro quelle sbarre oggi, il giorno dell’Assunzione: persone, uomini e donne, non numeri di matricola.