La vita all’interno del carcere è quindi, nei limiti delle possibilità, quasi normale? «Direi di sì. Le famiglie possono continuare a versare denaro e portare i pacchi, ci occupiamo noi di ritirare la biancheria pulita e di consegnare quella usata. Inoltre, per coloro che sono abituati a uscire, sia perché semiliberi che con il permesso di lavoro esterno e che hanno il cellulare, consentiamo loro di usarlo per telefonare una volta al giorno». A proposito di lavoro, è possibile attuare in carcere una sorta di smart warking? «Sì, c’è già un’azienda di informatica, la Unout, che si è organizzata in questo modo». Tutto normale, ma come la mettiamo con il coronavirus, è sicuro che non ci sia nessun malato o positivo qui a Opera? Giura di sì. Il carcere è stato ben sigillato dal primo momento, il che significa che certi provvedimenti, come quello della chiusura delle scuole, come forma di prevenzione, possono funzionare. Il rapporto con l’esterno è garantito dalle telefonate, da qualche conversazione via skype conquistato anche se centellinato e dalla continuità di ingresso dei volontari (articolo 17 del regolamento) su cui il direttore Di Gregorio è favorevole. Certo, a Opera non c’è il viavai di ingressi e uscite delle carceri di Bollate e San Vittore, ma governare un istituto di 1.400 persone tra cui i detenuti di una sezione di alta sicurezza non può che essere più complicato, nei giorni del virus che aleggia nei pensieri di tutti e nella realtà di un numero sempre maggiore di persone. Ci vorrebbe, per prevenire il contagio con nuovi ingressi, quel che hanno proposto i dirigenti di “Nessuno tocchi Caino” Rita Bernardini, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti, cioè una moratoria dell’esecuzione penale, soprattutto per le pene brevi o per i residui pena. C’è poi la parola magica, o maledetta: amnistia. Che cosa ne pensa il direttore di un carcere così importante e popoloso? «Penso che periodicamente possa procedersi a una azione misericordiosa».