Il dott. Nino Di Matteo ha certamente una virtù: pratica ed esprime con autentica onestà intellettuale una idea della magistratura che la gran parte dei Pubblici Ministeri (e tanta parte delle toghe nostrane) condivide e coltiva, ma evita prudentemente di esplicitare con la trasparente sincerità del P.M. palermitano. Ma è quella esattamente l’idea, caro dott. Di Matteo, che ha -allo stesso tempo- consumato in questi trent’anni la credibilità della magistratura agli occhi della pubblica opinione, e gravemente alterato gli equilibri costituzionali tra i poteri dello Stato, a tutto vantaggio del potere giudiziario.
L’intervista che il Fatto Quotidiano, non certo a caso, lancia in prima pagina, è ricca di spunti. Mi limito a coglierne qualcuno. Il dott. Di Matteo teme che si voglia approfittate della crisi della magistratura per “regolare i conti” ed “impedirle il controllo di legalità”. È un linguaggio allarmante, che tradisce una idea “antagonistica” confusamente populista e gravemente approssimativa del potere giudiziario. Al quale, sia detto con chiarezza, la Costituzione non affida affatto “il controllo di legalità”. La magistratura non è chiamata ad occuparsi di fenomeni sociali, ed a governarli (criminalità comune, corruzione, mafie), ma ad accertare e poi giudicare responsabilità personali, rigorosamente dopo aver ricevuto una precisa notizia di reato riferibile ad una o più persone. Il controllo di legalità è semmai affidato all’autorità amministrativa e di polizia, che investe la magistratura solo di eventuali notizie di reato emerse nel corso di quella attività di controllo.
E poi, chi esattamente vorrebbe “regolare i conti…per vendicarsi ed evitare che la Magistratura sia troppo incisiva”? Personaggi pubblici che impegnano la propria credibilità in affermazioni di questa gravità hanno il dovere di uscire dalle fumisterie semantiche e dalle semplificazioni fumettistiche, assumendosi la responsabilità di definire con chiarezza i destinatari di una simile, eclatante accusa. Affermare poi che in questo nostro Paese ci sia chi progetti di <<trasformare la magistratura in organo collaterale e servente rispetto al potere esecutivo>> connota il ragionamento del dott. Di Matteo di un tratto di un umorismo stralunato degno di Groucho Marx. Basterebbe ricordare che appena un mese fa, per dire solo l’ultima di mille, le roboanti e scomposte critiche di due “magistrati antimafia”, basate peraltro su una eclatante falsità (“con la riforma della prescrizione saltano tutti i processi di mafia”, gli unici invece che si celebrano nei ben più brevi termini di scadenza della custodia cautelare) hanno determinato a furor di media la precipitosa (oltre che incostituzionale) riscrittura di una norma appena approvata all’unanimità dal Governo legittimo del Paese.
O altrimenti che il Ministero di Giustizia è da sempre occupato -unico caso al mondo- nei suoi gangli decisori ed amministrativi cruciali, da un centinaio di magistrati all’uopo di volta in volta distaccati. O che, più in generale, da trent’anni il Parlamento di questo Paese, da chiunque governato, salvo isolate eccezioni non approva leggi rilevanti in materia di Giustizia penale senza il placet preventivo del potere giudiziario. Suvvia, dott. Di Matteo, non scherziamo!
La riforma Cartabia, poi, sarebbe la peggiore della storia repubblicana, per le più varie ragioni. Per esempio, perché affida (era ora!) al Parlamento, e non al Procuratore di Campobasso piuttosto che di Termini Imerese, la indicazione delle priorità della politica criminale (visto che i Procuratori, a differenza del Parlamento, non ne rispondono a nessuno, dott. Di Matteo, pur essendo la scelta delle priorità un atto tecnicamente “politico”, come ci insegnava Zagrebelsky, mica Previti, già nel 1992).
La separazione delle carriere, poi, sarebbe un orrore perché piaceva a Licio Gelli. Tipico ma assai diffuso caso di argomentazione ossessivo-compulsiva. Come dire che se a Gelli piaceva l’amatriciana, chi la predilige è uno piduista. Peccato che gli ordinamenti a carriere separate connotano le più grandi democrazie contemporanee (una volta tanto che possiamo apprezzare una idea di Gelli, gli spariamo addosso. Mah!). Infine, quale che sia l’esito del processo sulla Trattativa (una gragnuola di assoluzioni), il dott. Di Matteo è orgoglioso perché grazie ad esso la pubblica opinione “finalmente sa”. Con il che, badate bene, è definitivamente conclamata l’idea della indagine giudiziaria (e del processo) come strumento di divulgazione di “verità” (presunte, beninteso): delle vite umane coinvolte, e delle loro effettive responsabilità, chissenefrega. Grazie dunque al dott. Di Matteo ed al Fatto Quotidiano per questa impietosa, chiarissima fotografia di ciò che la magistratura italiana in tanta parte è ma soprattutto dovrà necessariamente smettere di essere, se vogliamo tornare davvero a vivere in un Paese rispettoso della propria Costituzione.