Con 3,6 milioni di rifugiati, la Turchia è il Paese che ha accolto più siriani da quando è iniziata la guerra. Sale anche in testa tra i Paesi con il maggior numero di profughi del mondo. Dal 2011 sono nati in Turchia circa mezzo milione di bambini figli di siriani; 350mila minori sono già stati scolarizzati, la stessa cifra lo sarà a breve. Lo sforzo fatto da Ankara di fronte a tale emergenza umanitaria è stato enorme: 40 miliardi di dollari (di cui 30 certificati dalle Nazioni Unite) spesi in scuole, ospedali (soltanto la Salini ne sta costruendo uno da 80 sale operatorie a Gaziantep) e sanità, mobilità, case per abitazione e uffici di prima accoglienza ecc. Tutta l’amministrazione locale a sud est del paese ha dovuto ristrutturarsi per far fronte alla massa e alle sue esigenze. Si sono dovuti moltiplicare maestri, medici, infermieri; si è affrontata la questione della lingua, i comuni hanno dovuto adattarsi alla nuova situazione. Davanti a tale sforzo impallidiscono i 3 miliardi (più 3 degli Stati membri) che la commissione dell’Ue aveva promesso di offrire come contributo in cambio del trattenimento dei rifugiati.
A oggi di quei denari sono stati versati 2,5 miliardi; un altro miliardo e mezzo è stato stanziato: alla fine saranno in tutto 4 o poco più, invece dei 6 garantiti… L’afflusso di oltre 3 milioni di persone in tempi relativamente brevi costa molto e continua a costare a un Paese che sta attraversando la medesima crisi economica di tutta Europa, Ora le cose vanno meglio: sono tornati i russi, una tra le prime nazionalità nei resort e alberghi. In Turchia non ci sono quasi più campi profughi e i siriani sono stati integrati nel tessuto socio-economico turco. È uno dei grandi orgogli di Erdogan. Con il tempo è tuttavia scemata la speranza di trasformare l’immane tragedia siriana in un’opportunità politica. All’inizio l’idea che l’amministrazione turca coltivava – nemmeno troppo segretamente – era di stabilizzare i siriani nella fascia territoriale a sud est della Turchia in modo da annacquare la presenza kurda.
Ma arabi e turchi sono e restano molto diversi, malgrado la comunanza di fede islamica sunnita. Il sostegno dato da Erdogan alla lotta anti-Assad gli ha assicurato la riconoscenza di molti siriani ma non implica un cambio di mentalità. Secondo i piani iniziali, questi ultimi dovevano stabilirsi in città e aree decise dal governo di Ankara, secondo programmi e un’organizzazione precisi. Ma gli arabi preferiscono fare di testa loro e si spostano: oggi almeno un milione e mezzo fra essi ha raggiunto Istanbul e le città sulla costa del mar Egeo. La loro idea è di avvicinarsi il più possibile all’Europa per poter tentare di entrarci, prima o poi. In certi quartieri di Istanbul si sente parlare solo arabo.
Sfavorevolmente sorpresi da tale “disordine” nell’ordinata Turchia, molti cittadini turchi stanno cambiando la loro opinione sui profughi. All’inizio della crisi siriana (e durante tutta una prima fase) essi condividevano in gran parte il modo con cui il loro governo aveva preso posizione nella guerra e aveva accolto i rifugiati, incluso tutto lo sforzo fatto per integrarli. Ma ora il clima è cambiato e le ripetute sconfitte elettorali dell’Akp (il partito di maggioranza) nelle elezioni comunali non sono estranee a tale mutamento dell’opinione pubblica. Soprattutto a Istanbul la gente si dichiara sempre più stanca dell’afflusso incontrollato di siriani e delle difficoltà legate all’integrazione… esattamente come accade in Europa.
Le vittorie dei candidati dell’opposizione si devono anche a tale situazione. Ripetuti appelli dello stesso Presidente hanno cercato di ovviare al caos che regna nel sistema di integrazione: i siriani sono stati invitati a tornare nelle località di residenza assegnate o, in altri casi, minacciati di rimpatrio. Molti siriani, sprovvisti dei documenti che permettano loro di vivere nelle grandi città occidentali del Paese, temono ora di essere spostati o peggio rimpatriati. Il governo vorrebbe ora riallocarne circa 2 milioni sul totale di 3,6. Si tratta di un’operazione enorme che si scontra con la ferma volontà dei rifugiati di non arretrare nella loro marcia “verso occidente”.
D’altro canto la guerra prosegue e per i sunniti in Siria il clima non è dei migliori. Così anche la Turchia diviene preda di problemi simili a quelli che hanno vissuto gli Stati membri dell’Ue, e rischia reazioni non diverse da parte della sua opinione pubblica. Contemporaneamente il presidente Erdogan ha annunciato all’ultima assemblea generale dell’Onu la prosecuzione dei programmi di inserimento, che prevedono la costruzione di nuove città con un costo pari ad altri 26 miliardi di dollari. Ripopolamento, ingegneria etnica, integrazione o rimpatri? Tutte le possibilità sono sul tavolo mentre la guerra siriana continua attorno a Idlib. Per l’opinione turca qualcosa va fatto anche per dosare i flussi. Le polemiche di questi ultimi mesi e anni tra Europa e Turchia, tutte immancabilmente legate alla questione migratoria scaturita dalla guerra siriana, confondono lo scenario, non permettendo una relazione oggettiva ed efficace.
Dal tentativo di colpo di Stato ad Ankara del 2016, i rapporti sono peggiorati, divenendo a tratti freddi e talvolta ostili, suscitando incomprensioni dalle due parti. Certo la reazione di Erdogan al putsch non è piaciuta: troppi arresti e processi espeditivi, troppa repressione, troppi media e social media imbavagliati. Cosa avviene oggi in Turchia? In Occidente tale svolta autoritaria sta destando preoccupazione e rigetto così come impensierisce l’attivismo turco in politica estera. L’affaire libico sta complicando ancor più i rapporti. Tuttavia tale stato di cose non deve creare un abisso incolmabile tra Turchia ed Europa: non è nell’interesse di nessuno dei due. Non occorre essere d’accordo su tutto per impostare relazioni più costruttive. A parte i problemi interni, sulla guerra di Siria i turchi si sono sentiti abbandonati da un Occidente incerto e confusionario che non ha saputo né essere unito né prendere decisioni condivise. Da parte europea si risponde che anche i turchi hanno voluto giocare con il fuoco e che i loro “amici” ribelli siriani non sono stinchi di santo.
Resta il fatto che in Siria la Turchia ha saputo realizzare un sofisticato equilibrio politico-diplomatico con la Russia di Putin, e ora è una delle potenze che conterà nel riassetto dell’area. Di questo europei e americani devono realisticamente tener conto, riconoscendo allo stesso tempo il grande sforzo fatto da Ankara in termini umanitari, invece di lamentarsi di pochi miliardi dati tra l’altro di malavoglia. Sull’uscita dal finale conflitto e sulla ricostruzione della Siria europei e turchi hanno tutto l’interesse a parlarsi e a collaborare. Anche se Assad ha vinto la guerra con l’aiuto russo, la Turchia non l’ha persa e ora viene il tempo in cui si deve vincere la pace. Parallelamente non va dimenticato quanto la presenza delle imprese turche nel Kurdistan iracheno sia massiccia. Di conseguenza anche la questione del Rojava siriano va ridimensionata: nessuno, nemmeno in Europa, è seriamente intezionato a favorire la nascita di un’autorità kurda autonoma o indipendente a nord est della Siria. Ciò scatenerebbe una reazione a catena di eventi incontrollabili. Anche i kurdi d’Iraq l’hanno capito, a loro spese.
Esiste invece un tema di minoranze molto più largo, che riguarda anche i cristiani, gli yezidi ecc. In Medio Oriente Turchia e Ue dovrebbero collaborare a una nuova fase di stabilità e convivenza, pur mantenendo opinioni diverse su molti fronti, primo fra tutti quello dei diritti umani e delle minoranze. Lo stesso si dica per la Libia: Ankara rappresenta un attore che può servire da equilibratore. Mettersi contro a prescindere coltivando sospetti e paure, non sarebbe pragmatico. Trattare – pur da posizioni diverse – è invece la strada da seguire e l’Italia ne ha tutto l’interesse. La Turchia (assieme alla Russia) si è data ormai il mandato di “security provider” nel Mediterraneo orientale e centrale.
Di ciò dobbiamo tener conto, sfruttando anche la tradizionale fluidità di rapporti tra Roma e Ankara, ora messa un po’ in ombra. Anche la Turchia ha interesse ad aver buone relazioni con l’Italia, e con l’Europa che resta il suo primo partner commerciale, senza possibilità alcuna di sostituzione. Il Mediterraneo rappresenta un interesse comune. Inoltre vari milioni di turchi vivono e lavorano in Europa: sarebbe un disastro se divenissero merce di scambio o, peggio, ostaggi di un contenzioso infinito.
La Turchia può essere un partner, certo difficile ma utile. Da quando è divento Primo Ministro e poi Presidente, su molti dossier Erdogan ha cambiato varie volte idee e posizionamenti in base al suo interesse nazionale: ciò significa che non ci troviamo davanti a una potenza sorda e irremovibile ma a un interlocutore capace e astuto. L’economia turca, malgrado le difficoltà della lira, sta reggendo bene la crisi economica. Malgrado le differenze, le due società civili -turca ed europea- vanno assomigliandosi sempre più, complice anche la modernizzazione voluta dal leader turco stesso, uno dei suoi più grandi successi. L’errore più grande commesso dagli europei nei confronti della Turchia è stato quello di rimanere ambigui davanti alle ripetute richieste di adesione all’Ue (la prima è del 1964!).
Il negoziato di adesione è formalmente ancora aperto anche se congelato. È ovvio che siamo diversi e che abbiamo talvolta interessi divergenti: ma questa può non essere l’ultima parola. Dialogare rappresenta l’unica strada per superare antiche diffidenze. Ma prima di tutto occorre capire cosa realmente accade in Turchia e quali sono le preoccupazioni dei suoi dirigenti. Sull’ignoranza e sull’improvvisazione emotiva non si costruisce nulla di buono.