Eurovision
Lo schema
Digital gap, il rapporto Letta impone di agire: più attribuzione a Bruxelles senza il tappo dei governi nazionali
La settimana di seduta plenaria del Parlamento Ue a Strasburgo si è chiusa ieri con il dibattito sui digital gap della nostra economia rispetto al resto del mondo. Siamo però ben lontani dal poter dire “Wow! Siamo sulla strada giusta”. Dopo che lunedì Enrico Letta aveva presentato il suo report “Much more than a market”, l’emiciclo ha partorito la consapevolezza che, sì, è urgente fare qualcosa. La polemica iniziata a settembre con la presentazione del Piano Draghi si chiude in questo modo dimesso. Lecito chiedersi se l’Europa possa permetterselo.
il Rapporto Letta e le indicazioni di Draghi
«Per come si sta comportando, l’Ue rischia di compromettere quei tre punti di forza che la distinguono da qualsiasi altro soggetto internazionale», commenta Arrigo Sadun economista, già membro del Consiglio direttivo del Fondo monetario internazionale, ieri a Bergamo per incontrare un gruppo di imprenditori riuniti dall’Associazione Faro. «Diritti umani e Welfare hanno fatto da colonne portanti della struttura europea fin dalla sua nascita. A questi, oggi si è aggiunta una sensibilità per le tematiche ambientali che nessuno ha fuori dai confini di questo continente. Tuttavia, la sopravvivenza di questo modello richiede, da un lato, una disponibilità finanziaria straordinaria, dall’altro, una leadership politica capace di integrare tutte le istanze dei Paesi membri». A una prima lettura, il Rapporto Letta non si distanzia molto dalle indicazioni di Draghi. I temi affrontati sono più o meno gli stessi: transizione verde, neutralità energetica e tecnologica, difesa comune. «D’accordo, ma con che genere di investimenti?» Si domanda Sadun. Dovrebbero essere economia e finanza a evitare di farci fare una brutta fine.
L’importanza di mobilitare sia capitali privati che pubblici, con la creazione di una Unione del risparmio e degli investimenti rappresenta un obiettivo che non si può più rimandare. L’esperienza dell’industria e la straordinaria disponibilità finanziaria dei cittadini europei dovrebbero fare da carburante di questa revanche del nostro Vecchio continente. L’Unione Europea ospita un incredibile patrimonio di 33 trilioni di euro di risparmi privati, detenuti prevalentemente in contante e depositi. Tuttavia, questa ricchezza non viene sfruttata appieno per rispondere alle esigenze strategiche dell’Ue. Metterla a reddito vorrebbe dire rispondere alle esigenze di investimenti che, tra Draghi e Letta, ammontano a 1.100-1.200 miliardi l’anno. Sadun è scettico però: «Cosa sono questi miliardi rispetto ai quattro trilioni di dollari mobilitati dagli Usa per riconvertire la loro economia?».
Il destino che ci aspetta
D’altra parte, sia Draghi sia Letta hanno chiaro il destino che ci aspetta. Se l’ex Governatore della Bce aveva paventato una “lunga agonia”, il secondo ha scritto che il rischio è “diventare una colonia degli Stati Uniti o della Cina nei prossimi dieci anni”. E qui si arriva al problema politico. Oltre ai soldi, manca una leadership in grado di amministrarli. In questo, il Piano Letta entra più nel merito. Dice che si dovrebbe permettere alle istituzioni centrali di legiferare attraverso un regolamento e non soltanto direttive, oltre che creare un 28esimo regime per operare all’interno del Mercato Unico: uno Stato virtuale, in cui le aziende potrebbero scegliere altre operazioni più pratiche a livello europeo. Misure di natura giuridico-finanziaria, ma che prevedono l’attribuzione di più poteri a Bruxelles, senza che i governi nazionali facciano da tappo. Sadun aggiunge la necessità di svincolarsi da quel diritto di veto cui ogni Stato può ricorrere in sede di Consiglio europeo. «Avrebbe senso per un tavolo intorno a cui siedono sei, al massimo dieci soggetti. Oggi l’Europa è composta da 27 membri. È inconcepibile che uno solo di loro possa bloccare una qualsiasi iniziativa».
Unione dei capitali, capacità di attrarre investimenti dall’estero, leadership politica con un potere decisionale vero. Questo schema ha il sapore del federalismo. «Era quello che sognavano Spinelli, De Gasperi e gli altri padri dell’Europa», dice ancora Sadun. Peccato che oggi a parlarne, ma in modo denigratorio, siano soltanto gli euroscettici. Merita ricordare quanto detto tempo fa da Mateusz Morawiecki, l’ex Primo ministro polacco di destra-destra, che si era stracciato le vesti contro il sogno elitista di un’Europa federale. Ma questo genere di avversari del sogno europeo sono ben più facili da affrontare rispetto a chi, nelle istituzioni a Bruxelles, non sente l’esigenza di alcun cambiamento. «C’è un problema della tecnocrazia europea, che non riesce a essere sostituita da una classe politica che sappia prendere il comando. Per questo le ricette di Draghi e Letta, per quanto belle, restano irrealizzabili».
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