Il caso
Digiunò e morì in carcere, condannati per omicidio i medici
«Alfredo soffriva di epilessia, anoressia, depressione ed emorroidi. Per venti giorni non aveva più bevuto né mangiato e questo, assieme a una perdita di sangue, lo portò a morire. Ma i medici del carcere non sono intervenuti in alcun modo». L’avvocato dell’associazione Antigone, Simona Filippi, è soddisfatta, anche se la sua battaglia è solo alla tappa numero uno. Ieri cinque medici dell’istituto penitenziario Cavadonna di Siracusa sono stati condannati in primo grado per omicidio colposo: secondo la giudice che ha emesso la sentenza quel 26 luglio 2012 Alfredo Liotta si è spento, a 41 anni, per la passività di chi si doveva occupare della sua salute.
Gli imputati erano otto e il processo, con il secondo grado ancora da celebrare, è ancora aperto. Intanto, però, il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, sottolinea che si tratta di una «vicenda che pone il caso di quanto sia lungo e complesso avere giustizia quando si è detenuti. Una giustizia che serve alla famiglia e che speriamo aiuti a costruire un mondo più solidale e attento alle fragilità». Liotta, originario di Adrano, era stato riconosciuto colpevole di associazione mafiosa e omicidio aggravato: quando è morto era in attesa dell’udienza davanti alla Corte di Cassazione, dopo la richiesta di annullamento della sentenza che prevedeva l’ergastolo.
Sette anni fa è la moglie di Liotta a rivolgersi all’associazione che si occupa dei diritti degli incarcerati. La sorella scrive loro un messaggio: «Chiedo un vostro intervento nella difesa del caso di Alfredo, lasciato morire senza alcun soccorso. L’ultima volta che l’ho visto è stato ad aprile 2012, era già molto deperito, pesava non più di 55 kg e poi da aprile a luglio c’è stato il decadimento psicofisico che lo ha portato alla fine». Antigone fa subito un esposto alla Procura di Siracusa nel quale, come spiega Filippi, «si sottolineava come il personale medico e infermieristico che si occupava del detenuto non avesse saputo individuare e comprendere né sintomi né il decorso clinico di Alfredo e che tali carenze conoscitive ne avessero determinato il decesso».
La stessa associazione viene a sapere, tra l’altro, che il 5 luglio 2012, poco prima della morte del detenuto, il suo avvocato aveva chiesto che venisse curato fuori del carcere. Il perito della Corte d’Appello di Catania aveva detto però che l’uomo stava fingendo, impedendogli di uscire dall’istituto. Nessun medico o psichiatra aveva avuto nulla da obiettare. La Procura cittadina, dopo l’intervento di Antigone, indaga nove di loro e anche il direttore del carcere, ma la sua posizione tre anni dopo viene stralciata. Rimangono i medici: dal dibattimento emerge che non avrebbero né misurato la pressione, né pesato, né tanto meno parlato con Liotta per convincerlo a nutrirsi o a farsi fare una flebo, limitandosi ad annotare che non toccava cibo. «La salute in carcere è un bene supremo da tutelare – ricorda oggi Gonnella – la morte di questa persona fu un vero e proprio caso di abbandono terapeutico». Poi il ringraziamento alla giudice del processo: «Ha permesso di evitare la prescrizione dei reati».
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