Le reazioni
Dimissioni di Zingaretti, il Pd tra shock e rabbia

Tutti spiazzati. Alla Camera e al Senato. Nessuno sapeva nulla. Eppure tutti aspettavano e molti avevano lavorato negli ultimi giorni per una mossa shock che portasse a fare finalmente chiarezza. Già, ma chiarezza su cosa? Difficile dirlo quando si parla del Pd che nei suoi quattordici anni di vita conta la bellezza di quattro segretari (di cui Renzi è stato il più longevo, ben quattro anni) e fin dall’inizio è stata una sequela di caminetti, correnti, guerre e vendette. Pur avendo la maggioranza interna è stato quasi impossibile per ogni segretario condurre una navigazione senza sgambetti e avvelenamenti. Una maledizione a cui prima o poi, e prima che sia troppo tardi, qualcuno dovrà trovare un antidoto.
Le dimissioni di Nicola Zingaretti da segretario del Pd sono una di quelle cose di cui si è cominciato a parlare un secondo dopo il giuramento del governo Draghi, un esecutivo che Zingaretti ha subìto. Così come aveva subito il Conte 2 (Salvini forse ne sa qualcosa di più). Tra i due bocconi amari ingoiati, ha disegnato le magnifiche sorti progressive dell’alleanza strutturale Pd-M5s guidata da un leader naturale di nome Giuseppe Conte. Dal 13 febbraio, giorno del giuramento del governo Draghi, il “passo di lato” del segretario era diventato più che un auspicio soprattutto per Base Riformista (BR) e Giovani Turchi, le due correnti che per motivi diversi non hanno mai condiviso lo schiacciamento del Pd sul Movimento e su Conte. Il tema “dimissioni”, collegato all’altro “chi è il Pd, quale la sua identità”, “che fine fanno il riformismo e la vocazione maggioritaria” a cui va aggiunta la variabile non prevista del tema rappresentanza femminile, hanno dominato il dibattito dell’ultima settimana.
Mercoledì scorso la squadra di governo è stata completata con le 40 caselle di viceministri e sottosegretari. «E adesso che abbiamo messo in navigazione il governo Draghi, possiamo cominciare a fare politica» è stato il senso di molti messaggi sulle chat interne del Pd. Lunedì scorso Lorenzo Guerini, conclusa l’assemblea della sua corrente, ha spiegato alla luce del sole come stavano le cose: «È necessario il congresso, non possiamo più rimandarlo, il Pd ha bisogno di ritrovare una propria identità e il governo Draghi, con la sua agenda, ci dà l’occasione di confrontarci su questo». Il congresso da iniziare in autunno e concludere a fine anno. Al massimo a gennaio prossimo. La risposta di Zingaretti è stata: «Nemmeno per idea, il Paese deve affrontare la pandemia e non possiamo certo metterci a guardare il nostro ombelico come se fosse il centro del mondo».
Lo scontro è stato rinviato all’Assemblea del 13 marzo. Nel frattempo altri macigni sono rotolati tra i piedi di Zingaretti. Conte leader del Movimento 5 Stelle (un’altra storia piena di trappole) ha prodotto un disastro in casa Pd: i sondaggi hanno dato il Movimento in crescita di 7 punti (21%), gli stessi che i dem hanno perso sprofondando al 14%. Sono solo sondaggi, ma hanno scatenato l’inferno nelle chat dei gruppi parlamentari. È la negazione della narrazione degli ultimi mesi, “dell’alleanza strutturale Pd-M5s”; dell’intergruppo al Senato; dei Comitati per l’alleanza sostenibile di Conte. “Conte-dracula che dissangua il Pd”, è la frase più gentile circolata in queste ore sui social. Un’altra umiliazione, per Zingaretti, è stato dover ammettere giusto mercoledì che «la legge elettorale di tipo proporzionale non ha i numeri, le destre sono entrate al governo apposta per questo» e che «si dovrà andare avanti col maggioritario». Un altro cavallo di battaglia fatto a pezzetti.
Un cannoneggiamento continuo. Lo stillicidio. Un maledetto Saturno contro che fa andare tutto male. La lista delle troppe scelte sbagliate presentata su foglio a quadretti ed evidenziata in giallo. E in tutto questo, ciò che ha fatto più rumore è stato il silenzio di Dario Franceschini, suo alleato di ferro in questi ultimi anni. Certi silenzi, si sa, non sono mai casuali. Nonostante il quadro, erano tutti convinti che lo showdown arrivasse all’assemblea del 13. Nessuno si aspettava il post di ieri pomeriggio. Passi lo sconforto, la rabbia, quasi la disperazione. Ma arrivare a «vergognarsi del suo partito», questo è stato troppo. «Un irresponsabile» è stato il commento più gentile. Seguiranno profluvi di commenti e articolesse. Nei fatti ora possono succedere tre cose. Le dimissioni vengono respinte con acclamazione: in fondo Zingaretti ha la maggioranza dell’assemblea. Se doveva essere una richiesta di sostegno e consenso, un modo per mettere a nudo i giochi delle correnti, Zingaretti ha però esagerato dicendo che «si vergogna del Pd». Difficile tornare indietro da questa affermazione.
La seconda opzione prevede che l’assemblea colga al volo l’occasione per cambiare passo e segretario. Con Draghi finisce una stagione e ne deve iniziare un’altra. E il Pd deve decidere se è un partito di sinistra-sinistra o di centrosinistra. Il congresso appunto. In questo caso potrebbe saltar fuori un reggente che traghetta il partito fino al congresso. Come fece Epifani dopo Veltroni. Esiste una terza opzione: Zingaretti, in cerca da tempo di una exit strategy (fare il segretario del Pd è logorante), ha gettato la spugna. Lo ha fatto nel giorno in cui il governo ha rinviato le elezioni amministrative a ottobre. Coincidenza non casuale. Nicola Zingaretti sarebbe un buon sindaco di Roma. E potrebbe avere l’appoggio dei 5 Stelle, basta convincere la Raggi. Draghi governa. La politica è in movimento.
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